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A 8 anni si andava a caccia d’orsi, con arco e frecce di fortuna, il volto paffuto in un pieno di Luna.
Avevamo il coraggio impavido dei cercatori di sogni e quell’estate l’orso delle caverne occupava con prepotenza tutti i nostri più reconditi bisogni. Non che l’orso ci fosse davvero nelle grotte di Camposilvano, ma proprio lì era vissuto per millenni, aveva calcato sentieri, s’era strusciato sulle cortecce, graffiandole e mordendole, aveva azzannato e masticati carni d’altri, aveva figliato e, soprattutto, abitato spelonche.
Muniti di panini al prosciutto ben pasciuti e di un litro di coca-cola, ci inoltrammo nel folto del bosco, salendo per sentieri accarezzati da ortiche, diretti verso il Covolo.
Poi iniziammo a scendere, sempre più in basso, il cielo divenuto una bandana ricamata da chiome e da rami protesi, noi ad abbracciare rocce e tronchi mentre il tepore lasciava la pelle, regalandoci quel fresco acume misto a misteriosa paura. E la paura, celata dall’ondeggiare smeraldino delle felci dolci e da fragranze di nera liquirizia, era custodita in un purpureo silenzio, permeata dall’odore acre e trepidante di sudore e batticuore, unita ai nostri passi pesanti, calpestii di piedi sempre meno leggiadri.
La grotta era immensa, una dolina a pozzo di crollo, le radici degli alberi penzolavano nella volta. L’acqua pigolava dalle fessure e il buio si faceva sempre più denso, solidificandosi in pietre mastodontiche, in coni d’ombra, ceppi d’ambra, stalattiti che colavano su stalagmiti in gocce arcaiche, resine concentrate di pensieri antichi.
Avrei desiderato un vestito di pelli, piedi nudi, rasta naturali sui capelli.
Avrei desiderato trasformarmi in Neanderthal, con il mio bel pugnale in selce e fondermi con la realtà di un passato certo.
Non parlavamo mentre cercavamo sassi, sassi diversi, sassi parlanti.
Ne trovammo uno con una mezza conchiglia tra i fianchi, altri con piccole foglie stampate meticolosamente e poi un sasso strano, non sembrava un sasso, ma un osso.
All’unisono decidemmo ch’era l’osso di un femore d’uomo.
Presi da euforia, caricammo i sassi negli zaini, facemmo man bassa dei panini tra le felci discinte, poi risalimmo il sentiero, abbandonando la dolente città degli inferi e immergendoci nel rumore delle genti, famiglie che consumavano picnic sui tavoli di legno davanti al museo paleo-archeologico, mentre noi alla chetichella fuggivamo come cani con in bocca l’osso.
Già, l’osso. Quando mio padre lo vide, cercando di rimaner serio, lo esaminò con attenzione, lo annusò con discrezione, poi emise il verdetto: “E’ il femore di un piccolo d’asino, l’ha mangiato circa due settimane fa. Siete stati fortunati, aveva ancora la pancia piena a metà”.
A mio cugino, che era il più grande, scappò da ridere, ma gli diedi una gomitata forte.
Non si poteva ridere, se il verdetto era quello, quello era.
Mio papà era un tipo serio e ne sapeva tante di fantastorie.