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Melanconia di classe
I poveri sono
come i cavalli:
basta aprire loro la bocca
e vedere la dentatura.
La melanconia di classe,
la povertà vissuta,
vergogna e colpa.
Appena uscivo
dal perimetro di quelli
uguali a me,
mi sentivo piccolo,
insignificante.
Un segno indelebile,
impresso da qualche parte.
Gli altri
l’avrebbero visto,
varcando la mia soglia
di protezione,
che mi separava
da un mondo
che sentivo
estraneo e ostile.
Il peccato originale
di cui parlavano le Scritture
apparteneva a noi:
concepito per noi,
peso per i poveri,
altro fardello.
Ricordo la mia maestra,
che tanto ho amato,
sorridermi nel dirmi:
“Scrivi meglio di come parli,
d’altronde a casa
parlate dialetto.”
Così,
senza accorgersi,
noncurante,
denigrando la mia lingua,
infilava la lama
che feriva il mio cuore.
Quello di mio padre,
del mio mondo.
Muto il mio tornare al banco.
La vergogna come compagna.
La rabbia come alleata.
Questo cordone ombelicale
ancora mi lega.
Non ho tagliato radici,
non mi sono “emancipato” —
termine da ricchi.
Per uso singolo.
Vocabolo anestetizzante,
sostitutivo di rivoluzione
per uso collettivo.
Le mie origini,
questa madre sociale,
mi ha salvato,
tenendo sempre vivo il ricordo:
le mani callose di mio padre.
I pochi sorrisi di mia madre.
I soldi contati,
i pacchi dono della Caritas a Natale.
E anche
giochi condivisi
fatti di niente e fantasia,
risate e ginocchia sbucciate.
Io —
che non provo vergogna
nel raccontarlo alle figlie.
Io —
che provo rabbia
per le ingiustizie del mondo.
Io —
che ancora cerco qualcosa
guardando il cielo
e gli occhi dei simili.
Io —
che ancora credo
che uniti
NOI qualcosa faremo.