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Non tutto il male…
Marta aprì gli occhi sullo sguardo azzurro del soccorritore.
“Come si sente, signora?”
La donna si guardò intorno, poi fece per alzarsi dalla barella.
“No, stia tranquilla, siamo in ambulanza,” disse occhi azzurri,” la stiamo portando in ospedale.”
“In ambulanza, cos’è successo?” chiese la donna.
“Ha avuto un malore, è svenuta, hanno chiamato l’ambulanza per soccorrerla. La portiamo in ospedale per vedere come mai si è sentita male.”
“Il biglietto, dov’è il mio biglietto?”
“Quale biglietto? Noi non abbiamo trovato nessun biglietto. Cerchi di non agitarsi, in ospedale si prenderanno cura di lei, la rimetteranno in forma, così poi potrà tornare a ca…potrà essere dimessa, ecco.”
“Il biglietto, quella carogna di Gino me l’ha rubato, io…io…voglio andare alla polizia!” urlò, tentando di nuovo di mettesi in piedi.
“Così non va, davvero! Deve restare calma o starà ancora male. Un po' di pazienza, stiamo per arrivare”.
Occhi azzurri ora la guardava con aria severa, Marta capì che non era il caso di insistere. Non gli disse che in due giorni aveva mangiato solo un panino e che forse era svenuta per la debolezza.
La situazione sfuggiva al suo controllo, del biglietto non c’era traccia e quel verme di Gino chissà dov’era a quest’ora. Non poteva farci nulla, schiumava di rabbia, ma non poteva farci nulla.
Riflettendoci, realizzò che, dopotutto, la barella dove era distesa era più comoda della panchina dove passava le sue notti tormentate, in ospedale avrebbe avuto un letto ancora più comodo, tutto per lei, e pasti regolari. Forse le conveniva stare al gioco: non aveva offerte migliori, al momento.
Non ne aveva avute da quando, giovane donna in fuga da un matrimonio infelice, era scappata da una casa dove il lusso era una trappola e lei la preda che era rimasta imprigionata.
Aveva sposato uno degli scapoli più ambiti della sua città, esponente di successo di una famiglia facoltosa e potente. Lo volevano tutte. Aveva scelto lei.
A distanza di tanto tempo da quei giorni di esaltazione romantica, non sapeva dire se all’epoca ne era stata davvero innamorata o se si era trattato solo di una specie di infatuazione, uno scivolone sulla pietra usurata dell’eterno mito del principe azzurro.
Non ci volle molto a capire che Marcello non aveva proprio nulla, a parte i soldi, del principe azzurro.
Un uomo insensibile, pieno solo del suo ego. Un narcisista di quarant’anni che aveva comprato col fascino del denaro e del potere la bellissima figlia diciottenne di una famiglia modesta. Un oggetto carino da esibire.
Un’altra al suo posto si sarebbe rassegnata e, facendo due conti, avrebbe deciso di non pensarci più e di godersi i soldi, magari consolandosi con un giovane amante. Lei no. Era giovane, e tenera come un agnellino.
Quando si rese conto dell’errore che aveva fatto, quando realizzò di essere troppo infelice per poterlo sopportare, ebbe la bella idea di iniziare a bere.
Piano piano, quasi senza accorgersene, si ritrovò a non poterne più farne a meno.
L’alcol diventò una consolazione e un rifugio. Difficile abbandonarlo, più facile scappare come una ladra da quelle mura cariche della sua rabbia.
Un giorno il marito disse che l’avrebbe fatta ricoverare in una clinica all’estero per disintossicarsi: per Marta non ci furono più dubbi su ciò che avrebbe dovuto fare.
Una mattina sgusciò via dal portone come un gatto e se ne andò. Con il solo vestito che aveva addosso e pochi soldi nel portafoglio. Prese un treno, uno qualunque, e partì in cerca di un’altra vita. Lasciò tutto dietro di sé, tranne la bottiglia.
Sbarcata in una città dove non conosceva nessuno, fece mille lavori e da mille fu cacciata. Beveva ancora, anche al lavoro.
Non fu difficile trovarsi per strada, all’inizio quasi non si rese conto della differenza fra la topaia nella quale viveva e il sottopasso della stazione che divideva con altri fantasmi come lei.
Giorno dopo giorno, il luogo dove si trovava diventò per lei lo sfondo di un sogno liquido, un’allucinazione perenne. Tutto era uguale e indifferente. L’importante era bere. Era diventata parte anche lei dell’esercito degli invisibili.
Se il marito l’aveva cercata o no, dopo la sua fuga, non sapeva dirlo e non le importava. Probabilmente, pensava, era stato un sollievo per lui essersi liberato di una donna che non poteva più essere il suo fiore all’occhiello.
Da allora, gli anni erano rotolati via senza storia, tutti uguali e sporchi di dolore represso.
La vecchiaia l’aveva trovata sulla strada, il posto dove probabilmente sarebbe finita la sua esistenza.
Quindi, perché adesso avrebbe dovuto opporsi a un destino che la voleva lì, su quell’ambulanza?
Qualunque cosa le fosse successa, non era poi un gran male, visto che la portava ad avere un tetto sulla testa, cibo decente e un letto vero, almeno per un po' di tempo. Il biglietto, ormai, era perso. Prima o poi avrebbe ritrovato quel disgraziato di Gino, e allora…non sapeva cosa avrebbe fatto, ma qualcosa avrebbe fatto.
Ora non era il momento di farsi il sangue amaro con quella storia, c’era da godersi una specie di vacanza, le infilassero pure i loro aghi dappertutto, le mettessero le mani sulla pancia e quel coso freddo sul petto per ascoltarle il cuore: era un prezzo che pagava volentieri, in cambio di tutto quello che avrebbe avuto da loro. L’unico problema era che non le avrebbero permesso di bere, ma si poteva risolvere.
Nel gruppo dei poveri cristi che la notte bivaccavano nel sottopasso le notizie si diffondevano velocemente, di sicuro sapevano già cosa le era successo e dove l’avevano portata. La strada è pettegola e non manca mai di tenere informati i suoi abitanti.
Qualcuno fra loro sarebbe venuto a trovarla, se non altro per saperne di più, allora lei gli avrebbe chiesto di portarle della birra che poi avrebbe nascosto sotto le coperte, o in qualunque altro posto le sembrasse al riparo dagli occhi di quella brava gente. Quanto a berla, il modo lo avrebbe trovato, diventava furba quando si trattava di bere.
Socchiuse gli occhi, quel giaciglio confortevole invitava a fare un sonnellino. La notte precedente non aveva dormito molto, malgrado l’alcol che aveva in corpo, con quella pazza di Rachele ubriaca fradicia che andava su e giù gridando come un’indemoniata.
Anche il sonno faceva parte del lusso che non poteva concedersi, ogni notte doveva stare all’erta perché c’era sempre qualcuno che voleva impossessarsi della sua panchina, bisognava essere pronti a lottare per la postazione.
In quel luogo asettico, non c’era nessuno a contenderle il posto. Era solo suo.
Si guardò intorno: occhi azzurri stava parlando con un’infermiera, a parte un vago odore di medicinale, tutto era pulito e gradevole intorno a lei.
Il sonno le cadde sugli occhi come un velo, si addormentò. Si svegliò una decina di minuti dopo, quando arrivarono in ospedale, tra le imprecazioni dell’autista contro la gente che non lascia passare l’ambulanza.
Qualcuno la trasportò come una regina sulla barella fino a una stanza dove la stavano aspettando per prendersi cura di lei.