L'Incendio Di Balsorano

scritto da Edgar Ros
Scritto Ieri • Pubblicato 11 ore fa • Revisionato 11 ore fa
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Serie "Real Mystery". Indagini su eventi inspiegabili avvenuti in varie zone d'Italia e del Mondo
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Testo: L'Incendio Di Balsorano
di Edgar Ros

Nessuno nel paese avrebbe potuto prevedere che la primavera del 1990 a Balsorano, un piccolo centro arroccato tra le montagne dell’entroterra abruzzese, si sarebbe annunciata con un alone di mistero. I primi a notarlo furono i bambini: avvertirono nell’aria qualcosa di strano e bizzarro, almeno nella loro percezione. Ma la natura del miracolo o della maledizione, si rivelò solo dopo il secondo incendio. Era una casa contadina, spaziosa, con il tetto spiovente e le persiane verdi sistemate da poco, abitata da una famiglia semplice, come tante altre. Quando la prima fiammata divampò in cucina, verso l’alba, i Vigili del Fuoco pensarono a un corto circuito, a un fornello dimenticato acceso, agli sbalzi di corrente che spesso facevano saltare la luce in tutta la zona. La mattina dopo, però, le fiamme divamparono dal materasso della camera da letto. Tre giorni più tardi fu il turno della legnaia, poi una tenda nel corridoio e, infine, lo stipite della porta d’ingresso si annerì senza che sopra o sotto vi fosse traccia di candele, fiammiferi o combustibili di sorta.

Il fumo penetrava ovunque e i bambini restavano svegli una notte sì e una notte no a causa degli scoppi improvvisi. In piazza, nella penombra del bar, si udivano versioni discordanti: chi parlava di malocchio, chi giurava che la casa era stata costruita sopra una faglia antica dove, in passato, avevano sepolto vivi alcuni banditi. La famiglia, ormai stremata dalle notti passate al freddo o a portare secchi d’acqua lungo le scale, si affidò prima al parroco, poi al maresciallo dei Carabinieri, infine a uno zio emigrato in Germania che spedì una lunga lettera, ordinando di bruciare incenso e spargere sale grosso su ogni soglia. Non sembrava esserci soluzione. Ogni settimana, divampava un incendio, come se rispondesse a una legge segreta e ogni settimana la gente del posto si stringeva sempre più attorno alla famiglia, in una solidarietà accompagnata alla paura.

Quando la vicenda finì sulle pagine della cronaca regionale, la situazione degenerò in una sarabanda di telecamere, esorcisti e pseudo-scienziati che si alternavano sulla scena. Le Autorità, costrette dall’eco mediatica a intervenire, fecero piantonare la casa notte e giorno da una pattuglia, mentre i tecnici dell’ENEL e della Protezione Civile demolivano pavimenti e aprivano varchi lungo i muri in cerca di cavi scoperti, bombole nascoste o tracce di benzina. Nulla. Nemmeno il più esperto dei pompieri riusciva a spiegare perché le fiamme divampassero solo in presenza dei familiari, ma mai quando la casa era vuota o sorvegliata a vista. Intanto, il racconto si faceva sempre meno razionale: qualcuno giurò di aver visto una lingua di fuoco serpeggiare sul soffitto e scrivere il nome del capofamiglia; qualcun altro vide, una notte, uno sconosciuto affacciarsi dalle finestre. Ogni superstizione, ogni antica paura, rifioriva e gettava radici nelle chiacchiere di paese, coinvolgendo anche i più scettici.

Fu durante una di queste notti di guardia, mentre pioveva forte e i vetri tremavano per il vento, che una studentessa universitaria in visita ai nonni domandò se qualcuno avesse mai ipotizzato una causa naturale, niente di esoterico, ma qualcosa di più elementare. Era iscritta a Scienze Ambientali a Pescara e sapeva che il sottosuolo dell’Appennino, in certe zone, poteva rilasciare gas in quantità minime ma costanti. La proposta fu accolta con diffidenza, poi con una curiosità crescente: nelle settimane seguenti, geologi e chimici vennero convocati in gran numero, prelevarono campioni di terreno, analizzarono l’acqua del pozzo, persino l’intonaco staccato dalle pareti. Infine, giunsero a una conclusione: minuscole bolle di metano, trasudate dalla roccia viva e incanalate nelle fondamenta della casa, si accumulavano nei punti ciechi finché una scintilla statica, magari il semplice strofinarsi di una coperta o il clic di un interruttore, non le faceva esplodere in una combustione rapida e apparentemente spontanea.

Per giorni, settimane, poi mesi, la spiegazione ufficiale dei tecnici circolò tra le case e le botteghe di Balsorano, come una medicina. I “fenomeni di accumulo di metano” venivano ripetuti con tono sommesso, con la medesima scettica incredulità che si riserva alle parole di uno specialista forestiero: la diagnosi, per quanto accurata, non era mai abbastanza per spegnere il fuoco delle superstizioni locali. In paese ci si divideva tra chi fingeva di credere alla versione ufficiale e chi invece, appena oltre la soglia della propria cucina, si abbandonava a teorie più oscure, alimentate di notte davanti alla stufa o nel chiaroscuro dei vicoli. C’erano i vecchi che ricordavano episodi simili, accaduti decenni prima nelle frazioni di montagna, quando intere stalle erano saltate per aria. C’era chi continuava a spargere sale sulle soglie e a custodire dentro la federa del cuscino la fotografia di un santino.

La storia era raccontata in due versioni: quella rassicurante per i bambini, con le sue misurazioni, le sue mappe sotterranee e i diagrammi a colori e quella segreta, per gli adulti, piena di dettagli macabri e di presagi. Nessuno sapeva davvero dove finisse la realtà e cominciasse la leggenda, ma era proprio in quella zona incerta, fra il detto e il taciuto, che il paese trovava la propria ragione di essere. Ogni nuova fiammata, ogni piccolo incidente domestico, ogni rumore sospetto che si levava dalla legnaia tornava a risvegliare la memoria collettiva dell’incendio, con una puntualità quasi liturgica. Bastava una scintilla, una lampadina che scoppiasse, un frammento di brace caduta dal camino, perché la storia riaffiorasse come un monito.

Lontano dalle telecamere e dagli esperti, la casa colpita dal mistero era diventata una tappa obbligata per chiunque passasse da Balsorano. In paese non si faceva mistero di accompagnare i forestieri sul luogo degli eventi: la recinzione arrugginita, le finestre sbarrate, le macchie nere sul muro ancora visibili nonostante le mani di vernice. C’era chi giurava di sentire un odore strano, pungente, che aleggiava ancora a distanza di mesi; c’era chi, col pretesto di recuperare un attrezzo dimenticato, si avventurava tra i locali deserti per vedere se qualcosa si muoveva nell’ombra. Restava la sensazione che il paese avesse guadagnato una qualche forma di notorietà: ai mercati di Avezzano e Sora, la gente parlava degli “spiriti di Balsorano”.

Con il tempo, i giorni della paura, quelli in cui la famiglia aspettava l’alba in cortile, i bambini tremanti sotto le coperte e gli uomini a fare turni di guardia, furono lentamente riassorbiti. I ragazzi, diventati adulti, raccontavano la storia ai figli con una teatralità che strappava risate e brividi allo stesso tempo. Le donne, durante la stagione delle conserve, sussurravano ancora qualche preghiera quando sentivano odore di bruciato, ma in fondo sapevano che nessuna ricetta avrebbe mai davvero liberato il paese dal fascino della sua paura.

Nessuna delle famiglie coinvolte lasciò davvero Balsorano. La casa fu restaurata, pavimenti e fondamenta sigillati con nuove tecniche, ma la memoria di quei mesi di ansia e veglia condivisa sopravvisse a ogni tentativo di normalità.

L'Incendio Di Balsorano testo di Edgar Ros
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