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Nella mia vita ho sempre
detto e “fato tuto”
senza mai mettere
una sola "tì" di mezzo,
senza nemmeno avere
una minima "tì di dimore".
Dimorarmi, dimorirmi.
Mai la benché minima paura od ombra che la sorte inversa
mi riportasse fuori strada,
dentro la ruota. (Della luce rotta).
La mia casa era tanto diversa
dalle altre e,
alle inversioni di coerenti avverse,
ho sempre ribattuto e ri-bandito
corpo su colpo.
Ho dato sfogo
e persino di matto,
ho desistito a tutto me stesso,
con mattoni
portati a vivo
a calce e calci
in pezze lesse
e appanni sporchi;
in madido cemento
ho sepolto occhi
per non vedermi cieco.
Il mio lieve muro
era di pianto fragile,
ed umido di poesia
sgretolava lacrime e macerie
poetandosi via tutto:
il trucco, la maschera,
la misserrima forma
di tutte le cose vane.
(In pieno stile Qoelet).
Con tutta la mia inerzia
mi sono trascinato
incatenandomi ad un cane sciolto, sempre appuntato
ad un cuore contromano.
E contro ogni pronostico
sono finalmente giunto
legato alle mie mani,
con un sacco di domande
da fare miele ovunque.
Con un sacco pieno di sogni
ho raddolcito il bene
persino della durezza
e il ferreo e vasto conscio
dell' intelletto vano,
tumore sapiente della cura morte.
Ed infine mi sono disposto sottovoce che il mio posto era qualunque.
Senza domiciliarmi di ragioni
mi sono scomodato tanto oltre, sussurrandomi
-che dentro me-
era meglio non cercare
il rifugio di negarmi,
che era bene non trovarmi
presente al rifiuto di annegarmi.
Ho risposto “sono Io”
a tutti miei appelli di speranza
e di tante salvezze
sono stato partecipe incosciente
fino a svanirmi dentro:
che lo sa solo Dio
come mi prese per i capelli
visto che ero oramai
un cuore di pietra ad un pelo dalla morte,
lapidato come l’ argilla greta.
Ero Greta Garbo e glabro,
malleabile al nulla e spelato d’ anima.
Sedimenticato.
Dispellato vagavo
senza un filo o un pelo di speranza.
Ora sono ancora calvo di fede
ma per fortuna ragiono ancora
con la mia testa appoggiata a Dio.