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Mi massaggio la mandibola e, succhiandomi il labbro, sento quel sapore ferroso in bocca. Tipica reazione di chi ha appena ricevuto un pugno. Ne ho appena ricevuto uno e non so il perché. O meglio: potrei forse saperlo, il perché. Ma non avrebbe alcun senso.
È il decimo e ultimo giorno di un ritiro di meditazione Vipassana. Dieci giorni trascorsi in questo centro immerso in una foresta di palme, rododendri e faggi tropicali a Pahang, nella parte orientale della penisola malese. Dieci giorni senza nessun contatto con la realtà esterna: cellulari spenti e consegnati alla reception il giorno in cui siamo arrivati. Siamo circa novanta persone tra uomini e donne, rigorosamente separati tra “sezione maschile” e “sezione femminile”, in completo silenzio e senza incrociare lo sguardo di nessuno. Qui viene chiamato “Nobile Silenzio” ed è uno dei precetti fondamentali della tecnica di meditazione Vipassana, quella utilizzata da Gautama Siddharta venticinque secoli fa per trovare totale liberazione dalle sofferenze umane ed elevarsi allo stato di Buddha. Siddharta riuscì a trovare una condizione permanente del cosiddetto “silenzio oltre la mente”. Sarò in grado di averne almeno un assaggio anche io? Ricordo di aver pensato durante il tragitto da Kuala Lumpur a Pahang.
Se torno a dieci giorni fa e ripercorro quest’esperienza, è interessante notare quanto il silenzio esterno sia stato spesso inversamente proporzionale al rumore interno: la mente, si sa, raramente sa stare quieta troppo a lungo, e ciò rappresenta una croce universale a prescindere dalla razza, dal credo o dall’origine. Dal momento che non si parla con nessuno, la voce interiore si affretta a battezzare con nomi, affibbiare aggettivi e creare storie su storie riguardo gli altri meditatori attorno a me.
La prima volta che l’ho visto nella sala mensa, seduto a uno degli sgabelli di plastica, gli occhi semichiusi mentre masticava lentissimamente una banana, ho subito pensato avesse una schiena eccezionalmente dritta.
– Tipica schiena di chi pratica yoga –
– E con quegli occhi semichiusi è già in modalità “piccolo Buddha” –
– Bé, giusto così. Del resto siamo qui per questo, no? Per meditare. Quindi buon per lui –
– Sarà, sarà… comunque, schiena davvero dritta… una delle più dritte che abbia mai visto. Quello ha l’aria di uno che ci darà del filo da torcere–
– In che senso? –
Eccolo, il suono del gong. È tempo di andare. Qui al centro le varie fasi della giornata sono scandite dai rintocchi del gong. Questo è quello che richiama alla meditazione delle 8 nella grande sala. Una volta dentro non posso fare a meno di notarlo ancora: il giovane ragazzo indiano, quello dalla schiena drittissima. Avrà avuto al massimo venticinque anni
— E ha quella tipica espressione, o meglio quell’aria da primo della classe che ricorda alla prof che si è dimenticata di correggere i compiti per casa. Hai presente? –
– Vabbè, ma cosa c’entra scusa? –
– C’entra eccome, fidati… –
Non posso fare a meno di notarlo perché, mentre tutti gli altri si sono disposti sui cuscini rettangolari per la meditazione, lui ha rimosso il suo ed è seduto sul nudo pavimento bianco, in perfetta posa del loto. Ovviamente con la schiena magnificamente dritta e gli occhi socchiusi, già pronto a ricevere l’estasi nirvanica.
– Cioè, mi stai dicendo che questo mediterà seduto in quella posizione per i prossimi dieci giorni, sette ore al giorno?? –
Il mattino dopo, alle 6:30, suona il gong della colazione. Ognuno ha posti assegnati, sia nella mensa che nella sala di meditazione. Il mio posto nella mensa è davanti a una delle finestre che si affacciano sul parco; siedo di spalle a tutti. Tuttavia, mentre esco, non posso fare a meno di notare il ragazzo indiano, in piedi davanti al mobile vicino all’uscita, che apre il barattolo di biscotti, ne tocca svariati e li rimette giù prima di estrarne uno di suo gradimento.
– Quanti biscotti devi palpeggiare con le tue dita per sceglierne uno?? Roba da matti –
Vale la pena notare che il ragazzo indiano, del quale non sapevo né saprò mai il nome, era solo uno dei numerosi rami a cui la mia mente irrequieta si aggrappava come una scimmia, saltando da un pensiero a un altro. La modalità nella quale ci si trova durante un ritiro Vipassana è tale per cui ci si ritrova sotto una cascata di pensieri, giudizi, viaggi su un tappeto volante che si muove tra passato e futuro sopra il vasto oceano della mente. Imparare a non reagire, a coltivare uno stato mentale che non sia né di desiderio né di avversione è parte centrale della filosofia che siamo qui per incarnare. È parte fondamentale del processo di purificazione mentale sul quale siamo qui a lavorare.
Mi accorgo che uno dei momenti della giornata nel quale la mia mente si ritrova calma e tranquilla è durante le camminate nel parco del centro. La natura qui è meravigliosa: ci sono famiglie di scimmie che saltano da un albero all’altro. Sugli stessi alberi, ma più in alto, ci sono dei buceri dal grande becco giallo che osservano e a volte cantano. Più in basso invece degli scoiattolini corrono veloci; si inseguono, poi si fermano, poi proseguono ancora più in fretta su per i tronchi. Tra l’erba e i rami caduti a volte vedo dei piccoli varani, dal corpo robusto e con macchie gialle sul dorso, camminare lenti e un po’ ondulati, che con la lingua biforcuta “annusano” la foresta. Ognuno pare convivere in un apparente stato di armonia. Tutto è parte dell’esperienza in quel preciso momento, che è l’unico momento a disposizione. Suono del gong. La pausa è finita. Tempo di rientrare per un’altra meditazione.
Suono del gong. Colazione. Mi incammino dalla mia camera verso la mensa. È quasi luna piena, semicoperta da una grossa nube scura. L’immagine mi appare come una grande tazza di latte macchiato nel cielo della mattina. La nuvola è il caffè, la luna il latte montato a spirale.
– Un gigantesco latte macchiato cosmico! Fra l’altro, mi faccio la voglia di un latte macchiato! Di quelli del bar. Prima cosa che faccio quando ritorno a Kuala Lumpur: trovare una buona caffetteria. E poi andare a radermi dal barbiere, che questa barba incolta fa prurito… –
Nella mensa, alcuni di noi sono in fila davanti al tostapane. Aspettiamo pazientemente il nostro turno per la razione quotidiana di pane e marmellata, o pane e burro di arachidi. O, come nel mio caso, entrambi. L’indiano è davanti a me. Quando è il suo turno, infila le due fette nel tostapane. Una volta pronte, nella maniera più lenta possibile inizia a spalmare il burro. Spalma talmente tanto burro che le due fette si imbiancano totalmente su tutta la loro superficie. Poi, altrettanto lentamente, inizia a spalmare un po’ di marmellata. In tutto questo, io e un’altra mezza dozzina di persone stiamo aspettando il nostro turno.
– C’è un po’ di pane in quel burro! Quanti strati ci ha spalmato sopra? Almeno tre! Ma poi voglio dire: non lo vedi che c’è una fila di persone che sta aspettando i tuoi comodi?? Ma non puoi mettere una noce di burro e una passata di marmellata e poi fare tutto il processo di spalmaggio seduto al tuo posto?! Roba da matti… –
– Vabbè dai che ti frega, tanto non è che devi andare da qualche parte… siamo qui dentro tutto il giorno… –
– È una questione di principio. Di rispetto nei riguardi altrui –
– Sai chi mi ricordi? Quel personaggio di quel racconto di Edgar Allan Poe. Quello che diventa ossessionato dall’“occhio d’avvoltoio” del vecchio e finisce per confessare l’omicidio dopo essere tormentato dal battito immaginario del cuore. Quest’indiano è il tuo, il nostro “occhio d’avvoltoio” –
– Che racconto straordinario quello! “Il cuore rivelatore” credo che si chiami. Speriamo solo di non fare la stessa fine del protagonista… –
Suono del gong. Meditazione nella grande sala bianca. Un’ora intera, idealmente senza cambiare posizione e senza aprire gli occhi. La chiamano “Adhitthana”, o “seduta di forte determinazione”. Ci sono delle volte, tuttavia, in cui apro gli occhi solo di una fessura, abbastanza per vedere i visi di chi è seduto di profilo rispetto a me e ai due insegnanti, uomo e donna, seduti alle loro rispettive postazioni su una sorta di piccolo palco. Ogni volta che lo faccio, tutti quei visi mi appaiono come forme senza volto, poiché i miei occhi sono aperti appena e non riescono a decifrarne i lineamenti. Senza volto e perfettamente immobili, come dei manichini umani.
– Come sarebbe un mondo di manichini umani! Come in quell’episodio di Dylan Dog di tanti anni fa. Com’è che si chiamava? E che numero era? –
– Lascia perdere, non è né la sede né il momento per pensare a Dylan Dog adesso –
Torno a chiudere gli occhi. Torno a portare l’attenzione al respiro. Respiro naturale, dentro e fuori dal naso.
Il pugno lo ricevo durante l’ultimo giorno di ritiro e a sferrarlo è proprio l’indiano.
Stavo abbracciando uno dei numerosi faggi tropicali del parco dopo l’ultima meditazione di gruppo. Mi sentivo bene, e grato per l’intera esperienza. Mi giro e l’indiano è lì. Il pugno mi prende alla sprovvista, come la maggior parte dei pugni che vengono sferrati, immagino. Non è un pugno troppo forte, ma ben assestato, e sufficiente per farmi sanguinare il labbro inferiore. Barcollo all’indietro, inciampo su una radice e cado.
Mi massaggio la mandibola e, succhiandomi il labbro, sento ancora quel sapore ferroso in bocca. Ho appena ricevuto un pugno e non so il perché. O meglio: potrei forse saperlo, il perché. Ma non avrebbe alcun senso.
– Cos’è, ti ha letto nel pensiero durante questi ultimi dieci giorni? È anche chiaroveggente?? Tutto ciò non ha senso! –
Cerco di capire cosa possa rappresentare quel pugno. Uno smacco al mio ego supponente, sempre ingombrante, e alla mia mente giudicante? O forse è il simbolo del fallimento di entrambi? Il mio fallimento, che l’ho ricevuto, e il suo che lo ha sferrato? O forse ancora: che questo pugno sancisca l’inizio di qualcosa di nuovo? Una doccia fredda, gelida, sotto la quale rigenerarsi…?
Mentre il labbro caldo pulsa, pulsano anche le tempie.
– Ti ha dato un pugno! Tutto ciò ha dell’incredibile! Inaccettabile! Alzati immediatamente e vagli sotto! –
Ma non lo faccio. Resto seduto sotto quell’albero, ignorando quel chiacchiericcio interiore. Non identificandomi con esso, poiché esso non è in realtà me. Sopra di me, su un ramo, due buceri bianconeri hanno assistito allo spettacolo e magari, tra di loro, si sono fatti una risata alla nostra. Piccoli problemi di piccole vite umane che non conoscono il dono del volo!
Io e il ragazzo indiano ci guardiamo ancora un momento: io ancora a terra, sotto l’albero; lui in piedi davanti a me. Mi dà un’ultima occhiata con quell’espressione da saputello della spiritualità, con quegli occhietti semichiusi come un Buddha a Bodhgaya. Poi si volta e si incammina verso l’uscita del centro.
Mi guardo intorno: non c’è nessuno. Nessuno ci ha visti, a parte i due buceri che ora spiccano il volo verso un altro albero, a godersi un altro piccolo spettacolo da posizione privilegiata. Nel prendere il volo, i due uccelli muovono delle foglie che cadono a terra vicino a me. Sento distintamente il suono di ognuna delle foglie al contatto col terreno. Lo percepisco in profondità e, in quel preciso istante, mi accorgo che la voce dentro di me ha cessato di parlare. E in quel preciso istante, nonostante il pugno, o forse grazie ad esso, sento un diffuso senso di pace espandersi in ogni parte di me.
Il giovane indiano è quasi all’uscita. Lo osservo mentre varca il cancello e si addentra nella giungla verdissima, con quella sua schiena dannatamente dritta.