Pollo

scritto da Rubrus
Scritto 19 giorni fa • Pubblicato 14 ore fa • Revisionato 8 ore fa
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Autore del testo Rubrus

Testo: Pollo
di Rubrus

Pollo.
Pollo!
POLLO!
Il grido risuona nel cortile, quello spazio tra l'ingresso alle aule e la cancellata che non è ancora “fuori”, ma non è più “la scuola”.
A Paolo sembra che ci sia davvero un pollo, un malefico gallinaccio che gli starnazza dentro la testa per avere la sua attenzione. E alla fine la ottiene.
Per un istante, Paolo si vede da fuori – anzi, si vede come sarebbe se fosse un cartone animato: un undicenne gracile e basso, con un ciuffo di capelli scomposti e la faccia rossa come il semaforo che vigila sui bambini all’uscita dall'istituto. Se sforza un altro po' l'immaginazione, vede il fumo che gli esce dalle orecchie come lo sbuffo di una locomotiva.
Poi succede quel che deve succedere.
Paolo urla – e sembra sul serio la sirena di una locomotiva – e si precipita verso Simone, Giovanni e Massimo (e altri, ma quei tre ci stanno sempre, come oscure stelle fisse attorno alle quali ruotano incostanti sistemi solari) che lo prendono in giro simulando movimenti e versi di qualche improbabile volatile.
Ridono, e anche nel ruggito di Paolo si può percepire una nota di ilarità. Questo è quello che sentono, perché è così che loro la vedono: stanno giocando. Anche i grandi la odono: quella specie di tranquillizzante nota tenuta che consente loro di dire: “sono solo ragazzi”.
Di quella roba che gorgoglia in un angolo freddo e buio della sua anima nessuno si accorge. Neanche Paolo se ne vuole accorgere, proprio come, quando si sveglia nel cuore della notte, evita di guardare in certi angoli della stanza, dove si intravedono ombre minacciose.
Paolo raggiunge i suoi persecutori e loro si sparpagliano, come se il pollo di prima si fosse trasformato in un roc... ma pur sempre goffo, stupido e innocuo.
Paolo

 …vide Marta entrare nel cortile della scuola, guardarsi in giro alla ricerca di Giulia e controllare l'orologio.
La salutò agitando una mano, chiedendosi se non fosse un gesto troppo infantile.
Per un istante, ebbe l'impressione di essere finito in un bypass nel flusso del tempo. Non aveva mai varcato il cancello e non era mai uscito dalla scuola: si era ritrovato adulto di colpo, come per magia, e tutto quello che era successo nel frattempo non era accaduto.
Marta lo scorse a propria volta e lo raggiunse, l'impermeabile aperto sotto un sole fin troppo caldo. Paolo avvertì una fitta allo stomaco del tutto diversa da quelle di quando aveva undici anni, conseguenza di un’eccessiva porzione di patatine fritte. Qualcosa era cambiato, dopotutto.
«Benvenuto nel Club dei Genitori Apprensivi» disse lei.
Paolo si guardò intorno. Rispetto ai suoi tempi, c'erano molte più facce brune, o asiatiche, ma rimaneva una buona quota di teste canute. Alcuni adulti in età lavorativa spiccavano come pupazzi di neve a ferragosto.
«Mi pare che, ultimamente, gli iscritti al club siano in aumento».
«Istinto. Non puoi farci niente. Sai che non puoi proteggerli... una parte di te suggerisce che non dovresti proteggerli. Ma tu vieni qui lo stesso».
«Ne hai parlato? A Giulia, intendo?».
«Santo cielo, no! Ha undici anni. Non importa che cosa gli racconti, quando hanno quell'età. Crederanno comunque agli amici... e alle chiacchiere. Comunque non a quello che dicono i loro vecchi. Fa parte del crescere».
«Andrea è ancora un bambino. Sai com’è, le ragazze maturano più in fretta, tuttavia…» sospirò «non ne sono sicuro».
«Alieni. Venuti da un’altra parte dello spaziotempo. Arriva il momento in cui te ne rendi conto. Tutto quello che sai, tutto quello che ti hanno fatto credere di dover sapere è utile come un ombrello sotto una pioggia di meteoriti».
«Dicono che fosse un bullo».
«Un tipo all’antica. Di quelli che intingerebbero le trecce delle ragazze dentro i calamai… se le ragazze portassero ancora le trecce e se esistessero ancora i calamai».
«Ho sentito che era più un soggetto da spintoni e merendine rubate. Comunque, non era molto popolare».
«Non è come ai nostri tempi, anche se neanche noi usavamo i calamai e io non ho mai portato le trecce. Il bullismo è una faccenda psicologica, oggigiorno, e i lividi sono dei filmati sui social».
Marta insegnava in un liceo. Paolo si chiese se fosse un liceo “di frontiera” oppure uno come la scuola in cui si trovavano ora: un posto tranquillo dove bande giovanili, integrazione problematica, spaccio, erano fenomeni quasi sconosciuti.
«Porto sempre in borsetta uno jammer, uno spray al peperoncino e una 44 magnum» disse Marta e, di nuovo, sorrise. Ancora, Paolo avvertì quella sensazione alla bocca dello stomaco. «Scherzo» disse lei «sul jammer, ovviamente. Diventano obsoleti in fretta. Il progresso».
Paolo pensò di dar voce ai suoi pensieri di prima e dirle che, per fortuna, Giulia e Andrea frequentavano una scuola tranquilla, poi gli venne in mente che, nelle scuole tranquille, gli studenti non entravano nottetempo per tagliarsi le vene dei polsi davanti all’ingresso. Guardò il portone d’accesso alle aule. I nastri gialli erano stati rimossi, il gesso cancellato e il sangue lavato via, ma rimaneva qualcosa di simile all’equivalente cerebrale di un filmato su youtube. Passato e presente si fusero e il cinema mentale di Paolo proiettò l’immagine di qualcuno (se Simone, Giovanni o Massimo non avrebbe potuto dirlo) riverso sull’uscio. Nella destra reggeva un rasoio e, sull’interno degli avambracci, spiccavano due “T” vermiglie, come macabri suggerimenti per un’interrogazione. Sotto, a mo’ di didascalia, stava il problema: “Considerato che un ragazzo di quel peso ha circa quattro litri di sangue in corpo, tenuto conto della frequenza cardiaca e considerato che ciascuno squarcio copre un’area di dieci centimetri ed è profondo mediamente due, quanto tempo impiegherà il nostro amico a dissanguarsi?”.
Forse i ragazzi di oggi erano davvero degli alieni, e forse nei licei servivano davvero spray al peperoncino e 44 magnum, ma i bulli non si tagliano le vene, e chissà se Marta lo sapeva, questo.
«Pensi che fosse…» esitò. Dario, si chiamava Dario, il ragazzo suicida, ma da un po', per tutti, era solo “il ragazzo”. Paolo sospettava che sarebbe andata avanti così per un bel pezzo «Pensi che fosse lui la vittima?».
«Era manesco, sì. Una volta ha tirato una sedia addosso a un’insegnante e, un’altra, ha rubato le biciclette di due ragazzi per gettarle da un cavalcavia, ma… “ha cominciato lui, signora maestra”. Quante volte lo hai detto, e quante volte era vero?».
Tutte pensò Paolo tutte le dannate volte era vero. Solo che essere chiamato “pollo” non era una buona scusa per dare inizio a una rissa, anche se nessuno si faceva veramente male e, in tanti anni, non c’è mai stato un occhio nero. Al massimo, altri lividi, del tipo che non si vedeva.
Guardò Marta e, di nuovo, fu sul punto di rivelarle i suoi pensieri e di nuovo soprassedette. Anche gli adulti avevano cose di cui non parlavano. Forse, crescendo, si metteva un segreto sopra l'altro finché il mucchio diventava così alto che quelli infantili, i più antichi, non si vedevano più e si riusciva a dimenticarli. Almeno finché grumi di ricordi tenebrosi non tornavano come incubi al risveglio dai quali risuonava la parola “pollo”.
«Ma sono solo chiacchiere» proseguì Marta e, improvvisamente, Paolo fu certo che volesse essere rassicurata. Che non fosse lì non per proteggere sua figlia Giulia, ma se stessa. «Era un piccolo bullo isolato, forse lui stesso vittima di violenza in famiglia, che scaricava il proprio rancore verso gli altri. Oppure si sentiva solo, e il bullismo era una modo di ottenere attenzione… o una forma di difesa». Paolo vide le domande che le turbinavano nella testa affiorarle negli occhi sotto forma di punti interrogativi. «Una situazione familiare difficile e quel povero ragazzo non è riuscito a superarla. Come altrimenti potrebbe essere andata?».
La campanella

squillò.
«Puoi spegnere quell’affare?» chiese Paolo.
Andrea smise di guardare il cellulare, senza però spegnerlo né metterlo in tasca.
Cos’aveva detto Marta a proposito dei jammer? Averne uno a portata di mano poteva non essere una cattiva idea.
«Volevo chiederti… quel… ragazzo...».
«Dario?».
Andrea lasciò cadere la parola con noncuranza, come se contasse meno del telefonino che gli ciondolava in mano mentre tornavano a casa.
«Sì. Lo conoscevi?».
«Non era nella mia classe».
«Lo so, ma...».
«Era di terza. E lo avevano già bocciato una volta».
Le classi, già. Come poteva averlo scordato? Se sei di seconda non ti mischi a quelli di prima, o di terza, quanto ai ripetenti... Quelli che parlavano di uguaglianza avrebbero dovuto tenerlo a mente. «Dicono che era un prepotente» proseguì.
«Un bullo». Quando l’oscillazione del braccio lo avvicinava alla faccia, Andrea sbirciava il display. «L’ho sentito dire».
«E tu non ci hai mai avuto a che fare».
«Uh uh».
Paolo cercò un significato nel mugugno, ma non lo trovò. Il bullismo è una faccenda psicologica, oggigiorno. Si chiese se la reticenza di suo figlio fosse sintomo di un turbamento più profondo. Dopo che lui e la madre di Andrea si erano lasciati era come se l’animo di suo figlio si fosse riempito di minuscole, profonde zone scure. Era come un gioco di enigmistica: unisci i punti neri con un trattino – che cosa apparirà?
«Sicuro?».
Sbuffo d’insofferenza. Veloce occhiata allo schermo del telefonino.
E tu? Lo avevi detto a qualcuno, tu? 
Però niente. Le cose cambiavano. Ripensò al cortile della scuola e a tutti quegli adulti solitari, in attesa. Ai suoi tempi, nella maggior parte dei casi, quella solitudine sarebbe durata il tempo del tragitto da scuola a casa, mentre adesso… be’, in qualche caso durava un po’ di più.
Però suo padre non era mai venuto a prenderlo, mentre Paolo era lì con suo figlio al fianco e, insieme, camminavano verso casa, perciò...
«Ho avuto anche io a che fare con qualche bullo» disse, sorprendendosi della naturalezza con cui le parole gli erano uscite. Era così facile? Forse sì. Forse era quello il segreto dei segreti. Ne parlavi e rimpicciolivano, come certe forme spaventose intraviste con la coda dell'occhio nelle stanze in penombra.
Cercò qualche reazione sul viso di suo figlio a quella rivelazione, e non la trovò. Unisci i punti neri. Che cosa apparirà?
Erano arrivati.
Era un piccolo bullo isolato, forse lui stesso vittima di violenza in famiglia, che scaricava il proprio rancore verso gli altri. Oppure si sentiva solo, e il bullismo era una modo di ottenere attenzione… o una forma di difesa.
Paolo si fermò davanti alla porta. È come una nota tenuta, la senti e ti dici che sono solo ragazzi e che nessuno di loro, anni dopo, si sveglierà da incubi nei quali risuona la parola “pollo” .
«Se avessi problemi con qualche bullo me lo diresti, no?».
Andrea alzò una spalla. Non era un inizio di dialogo, ma era qualcosa.
Tutto era posto perché le cose cambiavano, anche se non tutte in meglio. Se suo figlio fosse stato preso di mira (i bulli non si tagliano le vene... pensi che fosse lui la vittima?) non avrebbe fatto come lui. Non avrebbe desiderato che Giovanni, Simone o Massimo o chi per loro venisse travolto da un camion, o ucciso da qualche dolorosa, ripugnante malattia, o peggio ancora- Tutto era a posto e quel povero ragazzo (Dario, Dario, Dario) che, di notte, aveva scavalcato il cancello della scuola, si era seduto accanto all’ingresso in una posa composta come un maestro zen e si era reciso le vene con precisi tagli a T (lo aveva scoperto in rete, come fare?) quel povero ragazzo, sì, quel povero ragazzo era solo un disgraziato caso isolato.
Perché, come altrimenti potrebbe essere andata?.
«Un bullo è solo un codardo che ancora non si è fatto male» disse Andrea.
Paolo si chiese se qualcuno avesse chiamato suo figlio “pollo”.
Sperava di no.
Lo sperava proprio.

 

E poi che cosa è successo?
- Che sono cresciuto.

Val Kilmer – Micheal Douglas – Spiriti nelle Tenebre (film 1996) 

Pollo testo di Rubrus
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