Il Sogno

C’ero sulla cima di quella scogliera. C’ero.

Il vento era sprezzante, percuoteva con parole peste, liberando carichi pesanti.

Nell’allargare le braccia, volevo aver l’ali.

Nel sollevare le punte dei piedi stanchi, volevo staccarmi.

Ma il vento era sprezzante e sibilava come serpente.

“Non t’ascolterò” diceva la mia mente “non t’ascolterò”.

Voltai le spalle al mare e il brullo altipiano mi fece tremare, meno del tumultuoso blu, schiumante rabbia, ma lo stesso tremai.

Ritornai ai miei passi incerti, ai sassi, ai bozzetti d’erba secchi e mentre camminavo, il sibilo divenne sussurro, le sterpi divennero steli sguazzati di rugiada e altro blu mi spinò il cuore, un blu di cardi irti e straziati, di una bellezza scarna, ossuta.

Ma i miei occhi scorgevano anche altro, percepivano radici propagarsi nella terra, le guardavano intrecciarsi, nascoste, ai fili d’erba, protendersi per toccare quel ch’è celato e proteggere l’essenziale da ogni fuoco fatuo.

Caddi. Le mie mani toccarono il freddo e cadendo guardai il cielo e ne vidi gli orizzonti liberi, percepii spazi colmare interstizi, scorsi nuvole bianche incunearsi nel sole d’inverno, scrutai raggi di luce proporsi come ponte: erano uscite d’emergenza dall’inferno.

Ne afferrai uno, il più vicino, mi riportò in piedi, tra le braccia dell’aria, lo sentii solleticare le mie lacrime secche, giocare con le ciglia abbassate a saracinesche.

E quando aprii gli occhi, scossa da quell’intenso sentire, mi ritrovai catapultata nel mondo reale:

sinestetico, si spalancava in un’alba esangue e gocce di pianto raffermo, non cadute sull’asfalto, accarezzavano lievemente il prato, rivestendolo.

Esibendo stigmate nel petto fui conscia d’aver varcato le soglie del tormento.

Ora non so più dire se fu sogno o realtà, so solo che il brusio del mio stesso respiro mi traghettò, rassicurante, in giorni privi di vento e mi riconobbi nel battito bradicardico di un cuore che si ricordava ancora d’essersi spento.