76-Cag

scritto da Iviola
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Autore del testo Iviola

Testo: 76-Cag
di Iviola

Mia madre è sempre stata sola, da che la conosco. Ma non semplicemente sola di compagno, sola in un senso molto intimo: niente famiglia stretta, amici vaghi e poco affidabili. Sola, con due bambini, chiaramente. Quando se ne partì dalla cascina di Orzinuovi io avevo due anni e mio fratello sette, si trovò così a gestire una situazione difficilissima, senza neanche un lavoro. Ma lei è una persona con moltissime risorse, e in qualche modo fece.
In particolare il problema più scottante si solidificava nella sorveglianza di noi minori. Mio fratello dopo le medie, non era neanche più in casa e quindi non serviva un adulto, madre si informava su dove e quando, e il resto lo lasciava alla provvidenza, al di lui (poco) buonsenso e alle cabine telefoniche.
Io invece ero piccola, troppo piccola. Alla scuola elementare in prima ancora non esisteva il servizio mensa, quando la iniziai, così dovette cercare un servizio di doposcuola per potermi affidare a loro, da mezzogiorno per tutto il pomeriggio. In quel caso ricordo una stanzona, o forse di più, con qualche educatore-educatrice e compagni (quattro o cinque) che definire problematici era fargli un complimento. Però profondamente simpatici. E mi divertivo, quanto mi divertivo. Ho vivido il ricordo della radio accesa, Jovanotti che cantava No, Vasco, no Vasco/io non ci casco/per quelli che la notte/ritornano alle tre e noi che saltavamo intorno urlando la canzone, felici di una gioia così semplice e selvatica.
Poi iniziò finalmente il servizio mensa e rimasi a scuola fino alle quattro. Talvolta, siccome mia madre era turnista alla mensa del manicomio, mi fermavo a un grigio doposcuola tenuto dentro l’edificio stesso fino alle sei. Ma era tutto ondivago: facce mai fisse, gente senza identità precisa.
Avrete capito che eravamo bambini più nomadi che stanziali, affidati ad adulti vari, quasi sempre brave e buone persone, talvolta un po’ distratte, ma ci siam fatti le ossa conoscendo un po’ tutte le tipologie di gente. I bambini di ora non la concepiscono una vita del genere: madri, nonni e finita lì. Un po’ di scuola calcio o pallavolo, sempre regolata. La selvaticheria di questi contenitori urbani per minorenni, pieni di nicchie e stanze vuote in cui nascondersi, tempi bui dove toccarsi, baciarsi, scambiare segreti, è molto oltre le loro esperienze. Mio fratello era proprio nomade, molto nomade. Io rimanevo nelle scatole, come dicevo, lui misurava con i passi chilometri di strade asfaltate con i suoi fantomatici amici, sempre gli stessi, senza un senso e una regola come lui. Lo so che non c’è molta natura in questo modo di essere, ma la città offre tanto senso di tribù se ci si impegna.
Arrivarono quindi le medie, il problema si riproponeva. In prima media, entrai nel mondo dei CAG. La sigla significa: Centro di Aggregazione Giovanile. Erano strutture apposite, comunali suppongo, con alcuni educatori-educatrici che fornivano il pasto, aiuto per i compiti e attività pomeridiane di svago o laboratoriali. Futuristico a sentirlo. Il primo anno fu splendido: eravamo pochissimi (io, mia cugina, i fratelli R., una ragazzina dolcissima e non ricordo altri) con un educatore e una educatrice (A e M, credo) di una tale qualità umana che vorrei riabbracciarli ancora. Gentili, delicati, creativi, empatici, tutto. Un anno che definirei idilliaco, a parte il capitolo ore di lezione. Potevamo fare virtualmente tutto, essendo così pochi, così anche le uscite erano frequenti: parchi, passeggiate, giretti. Il centro aveva anche un bel giardino e ci passavamo un sacco di tempo con biciclettine e corde per saltare.
E poi – ahimè – la seconda media. Questo cag chiuse per numeri troppo bassi e perché adiacente a una scuola elementare che abbisognava di quello spazio. Mi mandarono in un’altra struttura, contenuta in un oratorio. Lì sì che furono dolori, non troppi, ma c’erano.
C’erano molti più educatori, alcuni molto bravi, ma anche più sbrigativi perché la risma di ragazzi (sì, un numero schiacciante di maschi) tra i quattordici e i sedici con cui avevano a che fare, erano livello teppistelli di periferia. Mia cugina si allineò immediatamente al livello. Io non ne ero capace, e infatti venni presa di mira. Non vi racconto come, non ne ho voglia oggi, furono comunque anni difficili. I miei momenti preferiti erano il coro (dove cantavo con gusto insieme agli sfigati) e le rare gite fuoriporta che organizzavano, ovviamente in quei momenti anche più destrutturati le angherie si intensificavano, ma era comunque bello uscire. Una volta uno dei due cervelli del gruppo mi buttò di proposito dentro a un ruscelletto nel parco Ducos. Ero zuppa dalla testa ai piedi. Mi concessero di salire sul mezzo prestato, le mie lamentele (zuppa, vi ricordo, e piena di residui arborei) furono immediatamente zittite: dovevo solo ringraziare che si prendevano la briga di riportarmi così e non in bici. Fecero la stessa cosa in piscina, ovviamente.
Insomma, o ti veniva la scorza dura, o era molto difficile sopravvivere. Io scelsi la fuga dalla realtà. E un bel pomeriggio la ribellione. Il ragazzino che decideva tutto era in mezzo al campo di gioco (tutto cemento qua, niente giardini) e mi diceva qualcosa di perentorio ed offensivo e lì decisi che ne avevo abbastanza. Faceva freddo e c’era poco sole per scaldarsi. Cominciai a prenderlo a calci negli stinchi, senza preavviso. Credo una serie di dieci o quindici, con tutta la rabbia e la forza che avevo nei piedi, lui era più basso e mingherlino. Mi guardava dolorante e io lo fissavo impassibile. Chissà come, d’improvviso smisero. Certa gente capisce solo la violenza.
Al liceo il problema non si pose più, il cag sparì e traghettai in una classe di merda, tutta femminile, che bastava e avanzava delle esperienze passate, ma questo è un altro capitolo.

76-Cag testo di Iviola
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