Il Montino

scritto da Paolo Guastone
Scritto 11 mesi fa • Pubblicato 11 mesi fa • Revisionato 11 mesi fa
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Autore del testo Paolo Guastone

Testo: Il Montino
di Paolo Guastone

Non appena attraversato il ponte frenai e scesi dalla bici.
La colonna vertebrale prima scricchiolò e poi si produsse in un miagolio soffuso ricordandomi, se mai ce ne fosse stato bisogno, che non ero più un ragazzino.
Uno sguardo fugace alle mie spalle svelò il paese che si stiracchiava nell’aria fresca di una bella domenica mattina di fine Febbraio. Il sole dipingeva le zolle nei campi, con tratti liquidi ed abbaglianti, e si colorava con il sapore della primavera.
Ho speso praticamente tutta la mia infanzia tra quelle quattro case anonime, chiuse nel silenzio della campagna, ma quel mattino mi sembrò di fissare il volto di un estraneo. Fu una brutta sensazione, ma durò poco.
Soffocai un’imprecazione e balzai di nuovo in sella: non avevo certo abbandonato il letto caldo solo per piantarmi come un ebete in mezzo alla campagna a rivangare il passato.
No di certo. Non dopo quello che mi aveva raccontato il mio amico Mario.
Più avanti, a neanche un chilometro, avvolta da alberi e vegetazione incolta, intravidi la meta.
L’immensa pianura, là, aveva un sussulto, come un singhiozzo o un colpo di tosse improvviso. Anche il nastro d’asfalto doveva lasciare la piatta uniformità ed impegnarsi in un saliscendi, una piccola piega su un tessuto perfettamente stirato, per superare un avvallamento sabbioso, residuo di un vecchio argine del fiume che là si estendeva al tempo dei dinosauri.
A metà salita, nella vegetazione si apriva una breve stradina sterrata che portava al Montino.
Tutti lo chiamavano così perché era piantato in mezzo all’avvallamento alle pendici della montagnola sabbiosa del vecchio argine. Si trattava di una radura, circondata da un boschetto di robinie, dove era stata scavata una grossa buca circolare di circa una decina di metri di diametro.
A vederlo sembrava più un luogo adatto ai sabba delle streghe ma, quando cassonetti e raccolta differenziata non facevano ancora parte del vocabolario, quel posto fungeva semplicemente da discarica.
E quando la buca era piena, un po’ di benzina ed un fiammifero risolvevano i problemi di spazio con tanti saluti all’ecologia e alla sostenibilità.
Da bambini ci venivamo spesso. Quando lasciavamo la strada asfaltata e prendevamo la stradina sterrata, avevamo la sensazione di immergerci in un mondo irreale, di un altro tempo. Ci affascinava quel cunicolo di vegetazione: ortiche, soffioni, sambuchi, robinie e rovi si intrecciavano fino ad escludere cielo e luce. Vi entravamo come in una bocca misteriosa ed il profumo sottile della vegetazione si fondeva alla frescura.
Poi, come per incanto, la galleria verde terminava, la vegetazione cedeva il passo alla radura e qui esplodeva, come in un quadro futurista, un turbinio di colori e, soprattutto, di odori diversi.
La buca era stracolma di sacchi di immondizia ed altri sacchi erano sparsi tutt’intorno e al limitare del boschetto. Pneumatici consunti, batterie esauste e valanghe di immondizia sfusa erano poi gettate senza cura, qua e là, insieme a rottami vari, materassi, scatoloni, bidoni vuoti, bottiglie, elettrodomestici defunti e mobili semidistrutti.
Ma la cosa non finiva lì perché, man mano che ci si addentrava nel boschetto saltavano fuori bottiglie di birra vuote, vagonate di mozziconi di sigaretta, mucchi di fazzoletti di carta usati e un mare di preservativi, segno che quel postaccio era considerato dai ragazzi più grandi un luogo sicuro e, contenti loro, anche romantico...
Per noi, invece, il divertimento consisteva nel rovistare dentro tutto quel marciume per scoprire se c’era qualcosa di interessante da recuperare.
Frugavamo tra l’immondizia, squarciavamo e rivoltavamo i sacchi, rovesciavamo scatole e scatoloni. Con le fionde facevamo a gara nel frantumare più bottiglie che potevamo, oppure aiutavamo Mario a sfasciare qualche vecchio mobile per ricavarne un po’di legna da ardere.
Se poi avevamo fortuna trovavamo qualche giocattolo semidistrutto, oppure dei vecchi fumetti sgualciti, insieme a libri neolitici e quaderni consumati, testimonianze marcescenti di vite vissute, imputriditi mosaici di esistenze gettati nell’oblio, che per noi avevano ancora qualcosa da sussurrare.
E, oltre a milioni di residui organici in decomposizione, ad insaccati pieni di mosche ed un esercito di medicinali ultrascaduti e vecchi barattoli andati a male, saltavano fuori anche vestiti laceri e rinsecchiti, scarpe sfondate, utensili arrugginiti e persino brandelli di certe riviste patinate in grado di mandare in ebollizione i nostri giovani sistemi ormonali.
Terminato di rovistare e rivoltare, giocavamo ad arrampicarci sul vecchio argine di sabbia e scivolare giù piombando in un soffice letto di erba, oppure ce ne stavamo spaparanzati all’ombra delle robinie, completamente isolati dal caldo, dai rumori e dalla gente, a discutere di cazzate, come sempre.
Malgrado l’aspetto, e la puzza tremenda, quel posto era una delle nostre mete preferite. Lontano da tutto e da tutti ci sentivamo i padroni del mondo e ci sembrava di essere in Paradiso. E, ripensandoci a distanza di secoli, forse eravamo in Paradiso davvero.
Ma un giorno, là dentro, insieme a Mario passai un brutto momento.
E non tanto per quella disputa, finita poi a botte, per sancire chi doveva tenersi un numero di Playboy, spuntato fuori da un sacco, e neanche per quegli ovetti di cioccolato, spiaccicati e cotti dal sole, che Mario aveva raccolto dalla buca e si era sbafato a quattro palmenti, trascorrendo poi il resto della settimana abbracciato al water, mentre io godevo come un maiale gettato nel fango.
No, non fu per quello.
Fu per un’altra cosa. Anche quella accadde decenni fa anche se, oggi, pedalando verso quel luogo, non mi sembrava più così tanto lontana.
Sapevo bene che dopo così tanti anni il posto era cambiato e che avrei stentato a riconoscerlo. La discarica venne chiusa e svuotata quando finii le medie e, da allora, quel posto perse ogni interesse e nessuno ci andò più.
Ero quindi ben conscio che, a parte rovi ed erbacce, non ci avrei trovato un bel niente.
Ma avevo un conto in sospeso e volevo saldarlo.
Arrivai alla stradina dopo qualche minuto. L’imbocco era stato cancellato dalla vegetazione e a stento riconobbi il pilastrino di granito, ormai fagocitato da erba e muschio, che reggeva la sbarra, finita chissà dove.
Scesi dalla bici e superai il primo muro di robinie, cespugli e rovi, quasi un cunicolo nell’intrico di spine. Decisamente non ero più quel bambino di un tempo: i rovi si aggrappavano alle maniche e ai pantaloni e dovevo camminare curvo, come una scimmia, a scapito della mie già precarie giunture.
E dire che quando venivamo a giocare qui eravamo più svelti degli scoiattoli.
Proprio come quel giorno d’estate di tanti anni fa quando io e Mario andammo a farci il solito giro al Montino ma alla fine fuggimmo a gambe levate, spaventati a morte da qualcosa che, ancora oggi, faticava a risalire il baratro della memoria.
Chissà cosa c’era poi di così tanto terribile, a parte la puzza, ovviamente…
Quel giorno non vidi nulla: fu Mario, forse, a vedere o a capire che qualcosa non andava, ma non me lo volle mai raccontare.
Fu uno scherzo? Suggestione? O forse là dentro c’era veramente qualcosa di strano. E di brutto.
Dopo tutti quegli anni ero là per scoprirlo. A cinquanta anni suonati mi stavo giocando coronarie e giunture solo per ritrovare qualcosa che, un giorno di un’estate remota, aveva terrorizzato due bambini!
Mi autonominai idiota del secolo, eppure l’avevo fatto. E mi stavo addentrando in quel posto incolto, in mezzo alle piante e alle erbacce, come in un rude percorso di guerra, per un motivo decisamente folle.
Ma quello che mi aveva detto Mario mi aveva decisamente colpito. E aveva ridestato immagini confuse, frammenti, indizi che si incastonavano come gemme in antichi gioielli e riportavano a galla una verità prima solo intuita e poi sepolta del tutto.
Ogni riflessione svanì quando superai l’ultima matassa di rovi e posai i piedi sulla spianata.
Decisamente non era come la ricordavo, come quando ci venivo da bambino.
Le robinie ormai la facevano da padrone e il boschetto aveva quasi completamente inglobato la radura. A destra si vedeva ancora il muro di sabbia del vecchio argine, ora completamente invaso dai cespugli, che saliva a formare la montagnola, mentre, a sinistra, il terreno appariva come un groviglio confuso di vegetazione spontanea. Qua e là slarghi apparentemente incolti trattenevano a stento l’esplosione di colori selvatici che da lì a poco avrebbe aperto al risveglio.
Ma era al centro la cosa che più attirò la mia attenzione.
Gli arbusti e gli alberi si erano come fatti da parte e, disegnata nel terreno sabbioso, si percepiva benissimo l’impronta della vecchia buca.
A quel tempo doveva essere profonda al massimo due metri, forse tre. Stimai che ora non dovesse toccare il metro: una conca perfetta, con le pareti che calano verso il centro, non troppo ripide, completamente ricoperta di erba.
Il silenzio che regnava e il modo in cui si mischiavano abbandono e geometria mi mise a disagio.
Mi avvicinai alla buca, sospeso tra i ricordi e il presente, e subito notai una cosa.
Qualcosa di strano, nonostante tutto, c’era e mi strappò il primo brivido della giornata.
Avanzai ancora di qualche passo e nell’aria mi parve di sentire di nuovo la stessa tensione di allora, quell’atmosfera inquieta che aveva fatto scappare a gambe levate due bambini in un caldo pomeriggio estivo.
Pensai fossero solo suggestioni senza senso, ma i ricordi si svegliavano, piano piano, e mi sembrò di tornare indietro, verso l’infanzia, verso quel pomeriggio lontano.
In mezzo alla buca intravidi una cosa assurda. Una specie di rigonfiamento nero che, a prima vista, mi ricordò la plastica. Poteva essere un telo o un pezzo di qualcosa non definito, ma la sua forma aveva qualcosa di insolito, qualcosa che mi sfuggiva.
Gli stivali slittarono sul terreno erboso ed ancora umido, ma riuscii a mantenere l’equilibrio e scendere nella buca. L’erba alta sovrastava le ginocchia ma tirai dritto senza apparente fatica.
Quella cosa assorbiva tutta la mia attenzione.
Con prudenza ci girai intorno. Lame distorte di luce filtravano tra gli alberi e sfumavano sulla superficie in ombre grottesche e cangianti. Che senso poteva avere quella cosa? Non riuscivo a capire quale potesse essere il suo scopo e perché proprio là in mezzo.
Ma, all’improvviso, ogni pensiero si smarrì perché, finalmente, capii.
Semisepolto nell’erba c’era un normalissimo sacco nero della spazzatura.
Le mie dita si allungarono a sfiorarne i bordi. Non era come gli altri.
Era caldo e sembrava vibrare, come se qualcosa si muovesse sotto la superficie.
Sembrava vivo.
Ritrassi la mano disgustato. Quella cosa non aveva nulla di naturale, nulla che suggeriva un’idea di normalità.
La discarica era chiusa da decenni, e ormai era diventata un bosco. Quello che non era stato sgomberato doveva essersi più che decomposto, l’accesso alla stradina sterrata era murato da piante e rovi, la stradina stessa si era trasformata in una giungla e altri ingressi non ce ne erano.
Era illogico che là dentro ci fosse ancora un sacco della spazzatura.
Chi mai oggi sarebbe riuscito a ficcarsi là dentro? E solo per buttare un sacco?
Quel sacco non mi piacque. Meglio girare i tacchi e lasciarsi alle spalle la buca, la radura e tutto il resto.
Forse sarebbe stato addirittura meglio se non fossi neanche andato fino là, se avessi lasciato dormire quel posto, nel passato.
Risalii il bordo della conca con gli occhi che tornavano continuamente a fissare lo strano sacco.
Sapevo di agire come un pazzo, eppure non mi fidavo a voltargli la schiena. Mi sembrava come una bestia in agguato.
Raggiunsi la base del vecchio argine. Quella volta non ci ero salito perché avevo preferito continuare a rovistare nei sacchi.
Solo Mario lo aveva fatto, perché voleva scivolare giù in mezzo all’erba.
Ma era salito solo di qualche passo prima di fuggire a rotta di collo.
Cosa aveva visto?
Allora non mi aveva detto nulla. Né quel particolare ritornò mai a galla in tutti gli anni a seguire.
Ma la settimana scorsa ci eravamo trovati al bar.
Avevamo iniziato a parlare del più e del meno: degli imminenti lavori nell’orto, soprattutto, come se due ultracinquantenni riuscissero ancora a sbadilare tra le zolle senza prima scavarsi la fossa con lo stesso badile. Mi disse anche che Adolfo, suo fratello, continuava a sperperare un sacco di soldi al Lotto e con i Gratta&Vinci mentre lui, invece, non prendeva lo stipendio da mesi perché la sua ditta navigava in cattive acque.
Poi mi disse un’altra cosa.
“Te lo ricordi il Montino?”, sussurrò, guardandosi in giro.
“Il Montino? E chi se lo scorda!”.
“Stanno succedendo cose strane…”.
La sua voce era come un filo di brezza gelida.
“Passo di là praticamente tutti i giorni e, da un po’ di tempo, ogni volta che passo, vedo gli alberi oscillare…forte…anche se non c’è un filo di vento!”.
Avevamo bevuto solo una birra a testa e Mario reggeva l’alcool meglio di un rinoceronte.
Scacciai subito l’idea che fosse sbronzo, tuttavia, non potevo non ricordare certe sue sparate di quando andava a pescare e si vantava davanti a tutti di aver catturato prede inarrivabili persino per le più moderne baleniere.
Mi domandai se ne stesse sparando un’altra delle sue ma, nello stesso tempo, trovai strano che avesse tirato fuori proprio il Montino, un posto dimenticato da secoli, diventato ormai quartier generale delle nutrie del circondario.
E, del resto, senza stipendio e con un fratello dalle mani bucate, Mario doveva avere ben poca voglia di scherzare.
Feci la faccia più interrogativa che potevo.
“Ma…sei proprio sicuro?”.
“Si, è successo anche due giorni fa e mi sono fermato, per vedere. Ho lasciato l’auto a bordo strada e mi sono affacciato dove una volta partiva la stradina sterrata e…”.
“E…sei entrato!”.
“No, all’inizio volevo farlo, ma…come mi sono affacciato tra i rovi, ho sentito prima un lamento e… poi un… gorgoglio, come se…come se…avessero sturato un enorme lavandino!”.
“E poi?”.
“E poi me la sono data a gambe! E mentre salivo in macchina ho sentito qualcuno che mi chiamava e…e la voce sembrava quella di uno che parla in un secchio pieno di stracci umidi dal fondo della tromba delle scale…”.
Tutti quei pensieri mi avevano distratto. La sabbia entrata negli stivali mi riportò al presente.
Prima ancora di rendermene conto, stavo lentamente iniziando la salita.
Era una pazzia. Perché non tornavo indietro?
Non lo sapevo.
Sapevo che dovevo vedere, dovevo superare quella prova.
La mia mente si stava dibattendo, come una falena imprigionata in una lampada, per cercare un perché a e quelle cose fuori posto che mi aveva raccontato il mio amico. Ero grande abbastanza per credere al mistero, per sapere che certe cose non possono succedere nella realtà. O meglio, non dovrebbero succedere.
Eppure, di Mario mi sono sempre fidato e non ero mai stato tradito.
Quindi non avevo alternative. Dovevo andare avanti.
E poi, tutta quella sabbia, l’argine, la buca, con la sua forma ancora perfetta dopo decenni, mi attiravano, come una calamita.
Mario non c’era ed ero io, stavolta, che dovevo salire.
E vedere.
Un sottile fruscio tra le robinie deviò la mia attenzione, mentre dalla buca cominciava a salire un leggero odore di marcio. Non riempiva l’aria, restava immobile, a fare da sfondo, come un semplice e silenzioso spettatore.
Poi una bava di vento mosse le piante ed increspò la superficie erbosa della buca. Mi sembrò di scorgere qualcosa tra l’erba. Non riuscii a capire. Sembrava che qualcosa si muovesse, ma fu un pensiero assurdo. Era di sicuro la mia fantasia che voleva giocarmi un brutto scherzo.
Scossi la testa per spazzare via le tracce di suggestione. Dovevo pensare a quello che avevo davanti. Tutto il resto non contava.
Ero quasi arrivato a metà salita quando la sabbia iniziò a muoversi.
Cercai di girarmi e tornare indietro, verso la solida terra della radura, ma non ci riuscii. L’aria premeva su di me per trattenermi in quel punto. La bava di vento si rinforzò e mi portò l’eco di un rumore strano, che non conoscevo e che non mi piacque per niente.
Sembrava una voce lontana, distorta, sembrava un lamento.
Altri strani fruscii e sibili mi giunsero dai cespugli lungo il crinale del vecchio argine e dal folto del boschetto.
Il mio cuore iniziò a martellare nel petto chiedendo udienza per uscire alla svelta da quel posto.
Avrei tanto voluto accontentarlo, ma ripensai al mio amico e a come se l’era data a gambe, quel giorno, poco dopo avere iniziato la salita.
Ecco…forse era questo che lo aveva spaventato così tanto!
Una forte corrente d’aria, circolare, si animò al centro della buca, come un immenso gorgo nell’erba.
Un suono chiaro arrivò alla mia schiena, come uno schianto di vecchie radici che si contorcevano e si strappavano, mentre altra aria scendeva, tagliente, dal crinale ad avvolgermi in spire di sabbia oscure e soffocanti.
Il gorgo nell’erba accelerò mentre alberi e cespugli attorno alla buca si agitavano, sotto la spinta del vento, al ritmo di una danza frenetica. La sabbia sotto di me tremò violentemente e si scosse come un animale imbizzarrito. Persi l’equilibrio e crollai di schiena sul crinale ed iniziai a scivolare fino alla buca. Una gamba scivolò oltre il bordo e si immerse nel gorgo erboso.
L’erba era gelida, viscosa. Si attorcigliò alla mia gamba ed iniziò a tirarmi dentro.
Fu allora che capii cosa potesse essere successo quel giorno e, in quel momento, l’incantesimo di paura si spezzò e mi liberai dal torpore.
Arrancai, trascinandomi sui gomiti. Dovevo fuggire, allontanarmi da quel luogo maledetto.
Con fatica strappai la gamba alla presa del gorgo e il vortice accelerò ancora, rombò di furore.
Solo l’istinto mi guidava, la ragione mi aveva già abbandonato e il respiro mi era stato strappato come da un salto improvviso nel vuoto. La terra della radura tremava e sembrava inclinarsi verso i bordi della buca, il vento piegava le piante fino quasi a terra e il rumore nell’aria era assordante.
Suoni che sembravano parole inumane urlavano la loro rabbia.
E mi chiamavano.
Carponi, con le dita che arpionavano l’erba, mi allontanai dalla buca e, a fatica, riuscii a rialzarmi.
Il vento mi sferzava, la terra sotto di me tremava ancora e gli alberi vibravano. Dovevo andarmene, raggiungere il muro spinoso che segnava il confine con la striscia d’asfalto. Laggiù c’era la salvezza, la vita.
Là dentro c’era solo follia.
Con lo stomaco stretto in una morsa ed un sapore metallico in bocca, fissai ad occhi spalancati la buca da cui ero appena scampato.
Cercai di respirare a fondo, ma riuscii solo a tossire. Il cuore accelerò e mi rimproverò di non averlo ascoltato.
Il risucchio del vortice erboso sembrava una risata, blasfema, assordante. L’odore di marcio si era amplificato a dismisura e mi artigliava i polmoni, il rumore di radici schiantate sotto la buca salì di intensità accompagnato da un gorgoglio osceno di cose fradice trascinate sul terreno.
Tentai di scappare ma non ci riuscii: il vortice verde mi incatenava, tratteneva i miei occhi, li risucchiava con il suo muoversi a spirale.
Sempre più largo, sempre più rapido.
E quando il vortice si aprì in un imbuto capii che non ero solo.
“Nonguardarenonguardarenonguard…!!”, urlava la voce della mia coscienza, ma io disobbedii a quel saggio consiglio e guardai.
E non potei fare altro che strillare, come un bambino, mentre la vescica mollò gli ormeggi liberando rivoli giallastri lungo le gambe.
Il sacco nero al centro della buca esplose spandendo nell’aria resti di immondizia primordiale dall’odore terrificante, la buca si aprì e dall’imbuto apparve uno scempio che neanche il peggior sceneggiatore di terza categoria strafatto di detersivi avrebbe mai potuto partorire.
Paralizzato, sentii le viscere liquefarsi, mentre qualcosa si alzò, gocciolando umori putrescenti, e poi prese ad avanzare, oscillando verso di me, con un rumore di enormi stracci strizzati.
Quell’oscenità era plasmata dalla sporcizia, dai rifiuti e dal marciume. Era una massa spugnosa ed infetta, un assurdo insieme di carcasse di animali morti, resti di cucina putrefatti, escrementi, sacchi di immondizia squarciati, rottami, pneumatici vecchi, elettrodomestici sfondati e vestiti ammuffiti, sorretta da chissà quale forza maligna.
Odorava di fosse biologiche non spurgate da decenni, di avanzi di alimenti lasciati a macerare una vita sul fondo di bidoni arrugginiti pieni di piscia, insieme a capelli e vomito incastrati negli scarichi dei lavandini, di vestiti stantii mescolati a pannolini sporchi ed interiora fumanti abbandonate sotto il sole di Luglio.
Escrescenze paffute e grumose, fatte di bucce di frutti putrefatti, verdure marce, medicinali scaduti, barattoli andati a male e vecchi giornali fradici si protesero da quella massa orrenda per ghermirmi, producendo un suono immondo di scarichi intasati, di liquami densi che colavano in fognature putride, piene di siringhe usate, preservativi, scarichi industriali e alghe decomposte.
Continuando ad urlare come un ossesso, iniziai a correre. Più veloce, più lontano che potevo.
Affondai nei cespugli, volai per terra un paio di volte, mi graffiai la faccia, mi strappai i vestiti, mi slogai una caviglia ma, come Dio volle, oltrepassai il boschetto e balzai dall’altra parte del muro spinoso, sulla strada asfaltata.
L’orizzonte era fermo e desolato ed appariva come un triste quadro in una galleria d’arte senza l’ombra di un visitatore.
Mi afflosciai sull’asfalto ed iniziai a strisciare verso la bici, lì accanto.
Il cuore batteva come un compressore e mi imprigionava il petto in una maglia di dolore.
Nella radura, dietro la barriera verde, gli alberi stavano ancora danzando e il vortice di vento e sabbia non si era ancora calmato.
Saltai sulla bici ed iniziai a pedalare come un ossesso.
Mentre l’aria fresca della primavera imminente, mi avvolgeva come una benedizione, un ultimo suono mi colpì.
Poche parole. Poche parole gorgogliate che si erano fatte strada tra i rovi e le robinie, che sembravano provenire da un secchio dove si stanno strizzando stracci sudici e che riecheggeranno in me per sempre.
“VI PRENDERO’!!…TUTTI E DUE!!!”.
Il Montino testo di Paolo Guastone
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