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Il mio alter ego
vive nel frigorifero.
Non soffre il freddo,
dice che la luce automatica
gli ricorda l’infanzia.
Io lo sento commentare
la scadenza dello yogurt,
come se il tempo fosse
una data stampata
sulla mia fronte.
A volte esce di notte,
si mette le mie scarpe
e torna a casa con polvere
che non riconosco.
Mi lascia post-it sul cuscino:
“Non essere te stesso, c’è già fila.”
E io firmo con la sua calligrafia.
Ci scambiamo il respiro,
come due attori
che fanno prove in un camerino
troppo stretto.
Lui sostiene che io sia
il suo alter ego.
Non discuto:
sa usare meglio
la porta del sogno.