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Ero proprio lì.
A due passi dalla colonna. Davanti a me, e tra me e lui, poche persone. I due carnefici grondavano del suo stesso sangue. Tutti gli eventi erano precipitati in poche ore. Avrei dovuto, avrei potuto esserci io al loro posto. Ed avrei obbedito. Ma non c'ero. Ero fuori. Tra la folla.
C'era una zona d'ombra, nel cortile, e tutto il resto era assolato. Oltre a quelli come me intorno alla colonna, c'era assiepata gente ad ogni piano dei portici e dei colonnati che circondavano il cortile. Ed avevano smesso tutti di gridare.
Il condannato adesso era in ginocchio, con le braccia ancora legate ad abbracciare la colonna. I carnefici avevano finito. Sulla schiena dell'uomo non c'era più pelle. La carne viva era esposta, ed a sua volta strappata. Lo stavano slegando, e lui è caduto con la faccia a terra. I carnefici lo hanno sollevato e strattonato. Specialmente quei due sono sempre stati poco più che animali. Appena arrivati nel mio manipolo li avevo puniti più volte, per la loro eccessiva brutalità con i compagni e con la gente.
Mentre lo tiravano via, uno di loro, Agarico, si è voltato ed ha incrociato il mio sguardo. Ora non ero più il suo capo. Ora non combatteva più. Faceva parte degli ausiliari di presidio, impiegati come sgherri del tribunale.
Mi ha fissato per un attimo con un ghigno rabbioso di sfida. Mentre lo faceva, ha colpito di proposito sul volto il condannato, per far sì che io vedessi quanto era diventato potente ora, che non rispondeva più a me.
Una rabbia sorda mi è montata nel petto, e quando stavo per affrontarlo, ho sentito una presa d'acciaio sulla mia spalla destra. Mi sono voltato ed ho visto il viso arso dal sole di Lucio, che, passando lo sguardo da me ad Agarico, scuoteva la testa e mi sussurrava "non adesso".
Avevo già visto più volte il condannato, e ne avevo sentito parlare. Poi il prefetto mi aveva fatto chiamare, in segreto. Una chiamata fuori dall'ordinario, ma non strana. Ci conoscevamo dai tempi del Sannio, quando lui era all'inizio della sua carriera, ed io della mia. Era adesso sempre più preoccupato che la resistenza potesse sfruttare i discorsi di quell'uomo, ed il suo seguito, per creare disordini. Gli serviva una faccia poco nota in città. Nulla di meglio di un soldato che passa la vita nella fortezza e non si mescola ai locali. Sicuramente aveva già incaricato anche altri per lo stesso compito: avrei dovuto tenerlo d'occhio e riferire.
Avevo quindi iniziato a seguirlo, ad ascoltarlo. L'ultima volta lo avevo visto la sera prima, nell'uliveto, dove si recava a dormire con i suoi. L'ho visto piangere e pregare in modo strano, era spaventato, il petto scosso da fremiti. Sembrava vedere e sentire cose che io e gli altri vicino a lui non percepivamo. Poi d'improvviso ha smesso di tremare, e per un lungo istante si è stagliato contro il cielo, ancora macchiato del sole appena tramontato.
Il condannato adesso era stato spinto fuori dal cortile, e poi dalla fortezza, ed altri carnefici gli avevano caricato sulle spalle una pesantissima trave. Da lì lo avevano spinto sulla strada che attraversava il paese verso le colline subito fuori dell'abitato.
Quello era l'ultimo viaggio dei condannati. Sulla collina lo avrebbero ammazzato, come avevano fatto, come avevamo fatto, altre volte. Troppe volte.
Una folla seguiva i soldati che seguivano il condannato, ed io, con un cappuccio intorno al capo, a mascherarmi il viso, mi sono accodato. Ed ho percepito Lucio e gli altri che facevano lo stesso alle mie spalle. Avevamo parlato tante volte di farlo, di ribellarci, di disertare. Ma non lo avevamo mai deciso. E neanche questa volta, almeno scientemente. Ma il massacro di quell'uomo nel pretorio aveva fatto scattare qualcosa dentro di me, e forse anche dentro di loro.
Ora il condannato era franato a terra, sotto il peso della trave, battendo il viso, e quasi rimanendone schiacciato. Uno dei soldati, che conoscevo, pur non essendo dei miei, si è avvicinato per colpirlo con una frusta per indurlo a rialzarsi.
In quel momento la ragione ha perso controllo delle mie azioni, in questo sostituita dall'istinto e dalla rabbia. Sono scattato in avanti ed ho bloccato il braccio del soldato. Lui si è voltato, guardandomi incredulo, e con l'altra mano ha tentato di impugnare la daga, ma nel frattempo la mia era già entrata nella sua pancia, e si era innalzata fino a fermarsi sotto lo sterno. Nel cadere con un rantolo, mi ha strappato dal viso il cappuccio, e la sua ultima espressione è stata di incredulità, avendomi riconosciuto.
Pur senza guardarli, ho percepito i movimenti delle altre guardie che si gettavano su di me.
Ma nessuno mi ha raggiunto.
Lucio, Decio, Manlio, Licinio, Gaio, Galba, Tito, Pullo, erano balzati fuori dalla folla ed avevano ucciso in pochi secondi almeno dieci soldati, facendo quadrato intorno a me. Benché ce ne fossero almeno dieci volte tanti nel giro di venti cubiti, la sorpresa è stata tanta, la confusione improvvisa, e talmente grande la differenza di forza e di esperienza tra un legionario ed un ausiliario di guarnigione, che nessuno riusciva ad avvicinarsi a me.
La folla urlava, correva, spingeva. Ho individuato subito almeno dieci giudei che, come dal nulla, avevano tratto da chissà dove bastoni e spade, ed affrontavano i soldati.
A terra, ad un braccio da me, il condannato era girato su di un fianco e mi guardava. Nei suoi occhi fino ad un attimo prima schiacciati dalla sofferenza, c'era ora un fuoco mai visto ed uno stupore infinito. Gli ho teso la mano e gli ho detto "vieni". Lui, senza muoversi, "...cosa stai facendo? Questo non era previsto. Non doveva succedere questo...".
Ho fatto un passo avanti, ed ho tentato di prenderlo per le braccia e per le spalle, ma quello si è improvvisamente rimesso in piedi. Il suo viso non era più deformato dal dolore. Gli stracci che aveva indosso non sembravano più lordi di sangue e terra. I suoi occhi fiammeggiavano e la sua voce era potente, e mi giungeva da tutt'intorno.
"Marco Massimo Voreno, soldato di Tiberio, non sai cosa stai facendo. Questo tuo gesto ha conseguenze immensamente più grandi di quanto tu abbia mai potuto immaginare. Il libero arbitrio può quindi davvero porre un limite all'onniscienza divina. Era scritto che io compissi questa strada fino al monte. Era scritto che la folla mi insultasse. Che i soldati mi facessero violenza. Che tutto terminasse con la mia morte su quella collina. E' possibile che la tua decisione non segua la volontà e la conoscenza del padre mio? Che colui che tutto decide, abbia lasciato decidere te?".
Ho fatto un passo verso di lui e gli ho messo una mano sulla spalla. Una scossa ha attraversato il mio braccio, il mio collo, il mio petto. I miei occhi hanno perso la vista, abbagliati da un lampo bianco. Il cuore lottava di palpiti per schizzarmi fuori dalla gola.
Poi, in un attimo, ho visto. Ho visto tutto.
La mia vita. La sua vita. La vita di tutti gli uomini del mondo. E la croce sulla collina.
Mi sono quindi improvvisamente reso conto che mi aveva parlato per tutto il tempo nella sua lingua, ed io lo avevo compreso come se avesse parlato in latino.
Quando ho ripreso a vedere ciò che avevo attorno a me, la scena stava cambiando rapidamente. I miei compagni combattevano ferocemente, ma troppo grande era il divario numerico, e stavano lentamente avendo la peggio. Alcuni di loro erano già a terra. Dalla porta occidentale delle mura, e dalla fortezza Antonia, arrivavano le truppe di rinforzo, quelle vere, quelle delle coorti, fatte uscire di fretta dalle caserme, che in pochissimo ci avrebbero raggiunti.
Il condannato stava scomparendo tra la folla, sospinto da alcuni dei ribelli armati. Il suo sguardo però era ancora fisso nei miei occhi. Pochi attimi e non era più in vista.
Lontano dal Sinedrio, dalla folla. Dal Golgota.
Dietro di me ormai pochi dei miei compagni con le armi ancora in mano. Gli altri già morti. Eroici o incoscienti. Come già in tante battaglie, ma questa volta lanciati con me, senza un momento di esitazione, verso un suicidio sicuro.
La legione che arrivava. Così vicina che potevo vedere il prefetto alla testa dei soldati, circondato dalla guardia, e la sua espressione esterrefatta e furibonda.
Lucio era ancora in piedi alla mia destra. Ci siamo guardati. Non é stato necessario parlarci per decidere che non dovevamo lasciarci catturare. Perché ai traditori dell'esercito non spetta la morte per decapitazione come a tutti gli altri cittadini di Roma. Nessun diritto di appello a Cesare. Ci avrebbero squartati, crocifissi, bruciati.
Non è stato necessario parlarci per decidere di balzare insieme addosso ai primi soldati che sopraggiungevano fendendo la folla a colpi di lancia e spada. E così costringerli ad ucciderci, prima che Ponzio Pilato potesse urlare dal suo cavallo di prenderci vivi.
Proprio come mi ero sempre aspettato di morire. In faccia al mio boia. Con una lancia nel petto.
Ora sono qui, davanti a te, e vedo il tuo volto luminoso, e nel tuo volto vedo il volto del condannato. Ma ora è sereno. Lo chiami Figlio. Ora lui sa. Ed ora so anche io. E comprendo chi era quel Yehoshua, e che la sua parola era verità. E comprendo che era nel tuo disegno dare ad un uomo la possibilità di scegliere. Una libertà così grande da poter sfidare la tua onniscienza, e cambiare i tuoi disegni.
Tu ora mi giudichi.
Ti sento dire, pur senza vederti parlare, che la capacità di essere giusti di cui hai fornito ogni uomo, può sempre emergere, e prevalere.
Il sacrificio è compiuto. Un sacrificio nuovo, inaspettato. Il mio.
Nelle tue mani rimetto il mio spirito, Signore.
Sia fatta la mia volontà.