L'epifania del pozzo

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"l'assurdità dell'esistenza e l'accettazione del vuoto"
- Nota dell'autore innuendi

Testo: L'epifania del pozzo
di innuendi

Si svegliò nel buio.

Non sapeva dove fosse, chi fosse, o persino se fosse mai esistito davvero.

L'unica certezza era la sensazione della terra fredda e umida sotto le sue mani che gli penetrava nelle ossa - sempre che quelle fossero davvero le sue ossa.

Il freddo era così intenso che sembrava parte della sua stessa essenza, come se il calore non fosse mai esistito nell'universo.

Alzando lo sguardo verso l’alto, scorse una luce pallida. Era la bocca di un pozzo. Le pareti di pietra grezza si alzavano verticali intorno indifferenti. L'oscurità respirava, pulsava con una vita propria, mentre gocce d'acqua scandivano il tempo da qualche parte nell'ombra.

Si toccò il viso, ma le dita che sfioravano la pelle gli sembravano appartenere a un altro. Era davvero il suo volto quello che stava toccando? E quelle dita, erano veramente parte di lui? La consapevolezza di poter formulare questi pensieri contrastava violentemente con l'incapacità di rispondere a domande così elementari. Come poteva pensare senza sapere chi stesse pensando? Come poteva dubitare senza sapere chi fosse il dubitante?

Nei meandri della sua mente, cercava disperatamente un nome, un volto, un ricordo che potesse ancorarlo a una qualche forma di identità. Ma trovava solo vuoto, un vuoto che paradossalmente sembrava più concreto di qualsiasi presunta sostanza del suo essere. I pensieri scorrevano come acqua, ma da quale sorgente provenivano? Era come se una radio trasmettesse in una stanza vuota – ma chi era l'ascoltatore?

Provò ad alzarsi. Le gambe – supposte che fossero sue - tremavano come foglie in una tempesta che non ricordava di aver mai visto. Toccò la parete: era viscida di muschio. L'odore era quello della decomposizione, della vita che nasce dalla morte in un ciclo eterno che non comprendeva ma che sentiva familiare. Tentò di arrampicarsi, le dita cercavano disperatamente appigli nella pietra antica.

Ogni fessura, ogni sporgenza prometteva salvezza, ma era solo un'illusione. Scivolò. Cadde nuovamente nel fango, e il suono sordo della sua caduta echeggiò nel pozzo come una risata beffarda. Provò ancora, e ancora. Ogni tentativo si concludeva nello stesso modo: con lui che precipitava giù, in una danza assurda tra il desiderio di essere e l'impossibilità di esistere.

Dal cerchio di luce in alto giungevano suoni indistinti. Voci forse, o forse il vento. A volte sembravano risate di bambini, altre volte lamenti di creature dimenticate. Non poteva distinguerle, come non poteva distinguere se stesso nei suoi ricordi assenti. La sua mente era vuota come il cielo che intravedeva lassù, eppure paradossalmente piena di domande che nascevano dal nulla e al nulla tornavano.

Chi era? Da dove veniva? Esisteva un "prima" di questo pozzo? Le domande rimbalzavano nelle pareti della sua coscienza vuota come echi in un abisso senza fondo. Forse era sempre stato qui, parte di questo vuoto circolare che univa il fango alla luce. Forse il mondo intero era racchiuso in questo pozzo, e tutto il resto - il sole, le stelle, le città, gli amori, i dolori, - erano solo illusioni create dalla sua mente per sfuggire all'insopportabile verità della sua condizione.

Si rannicchiò contro la parete. L'assurdità della situazione gli strappò un sorriso amaro. Era intrappolato in un pozzo senza memoria, eppure poteva contemplare l'assurdità stessa della sua condizione. Questo lo rendeva più reale o più illusorio? Il pensiero stesso era una forma di esistenza, o solo l'eco di qualcosa che non era mai esistito?

Le ore - o forse erano minuti, o millenni – scorrevano come le gocce che gli rimbalzavano addosso. La luce mutava intensità, proiettando ombre che danzavano sulle pareti come spettri di ricordi mai vissuti. Ma lui rimaneva immobile, come una statua che contemplava la propria non-esistenza. Aveva smesso di cercare una via d'uscita. Aveva smesso di cercare ricordi. In questo stato di non-essere, di pura coscienza sospesa tra il nulla e il tutto, trovò una strana pace.

Osservava le gocce d'acqua che cadevano, ognuna un universo completo, ognuna un momento perfetto nella sua perfezione. Il tempo aveva perso significato. Il suo corpo - o quello che credeva fosse il suo corpo - sembrava dissolversi nel fango, fondersi con il pozzo stesso. Non era più certo dove finisse la sua sostanza e dove iniziasse quella della terra.

Il mondo sopra il pozzo poteva esistere o essere un'illusione. Lui stesso poteva essere reale o un semplice pensiero perduto nel vuoto. L'unica verità era questo momento, questa consapevolezza di questa assurdità, questo essere nel fango contemplando un cerchio di luce irraggiungibile. Era un prigioniero che aveva scoperto che le sbarre della sua prigione erano fatte della stessa sostanza dei suoi dubbi.

E in quella consapevolezza, paradossalmente, trovò la sua libertà. Non la libertà di muoversi, di scalare, di fuggire, ma la libertà di accettare l'assurdo, di abbracciare il vuoto, di essere simultaneamente nulla e tutto allo stesso tempo. Il sorriso sul suo volto non era più di disperazione, ma di comprensione profonda: aveva trovato, nel fondo di quel pozzo, la verità che forse gli uomini cercavano da sempre nelle stelle.

La luce continuava a brillare in alto, indifferente alla sua epifania. Le voci continuavano a mormorare parole incomprensibili. E lui continuava a esistere, o a non esistere, sospeso tra essere e non essere, tra memoria e oblio, tra disperazione e accettazione.

Era diventato il pozzo, e il pozzo era diventato lui.

2024

L'epifania del pozzo testo di innuendi
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