Il sogno dello scrittore

scritto da brunotraven2016
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Autore del testo brunotraven2016

Testo: Il sogno dello scrittore
di brunotraven2016

Lo scrittore di novelle si sedette alla scrivania, prese dal calamaio la penna e cominciò a vergare la nuova storia. Sarebbe stata una storia diversa dalle altre che aveva scritto finora: una storia che non avrebbe cercato l’effetto a tutti i costi, per cui, peraltro, era famoso e celebre nel mondo delle lettere americane.
Non più, dunque, quella storia che finiva con un effetto a sorpresa ma che, al di là del finale, rimaneva superficiale. Dopo averne scritte centinaia di quel tipo, si era convinto che la letteratura, la sua letteratura, dovesse cercare un effetto meno superficiale e più profondo: scavare nella psicologia dei personaggi, invece di farne semplici macchiette al servizio del colpo di scena finale.

Quel racconto che stava scrivendo avrebbe dovuto avere proprio quelle caratteristiche, discostandosi nettamente dalla sua produzione precedente: una scrittura nuova, che avrebbe fatto di lui un altro scrittore.

Voleva cambiare stile: non più racconti “alla William Sartoris”, in arte A. Cavalier, cioè costruiti sull’effetto di sorpresa finale, ma qualcosa che si avvicinasse ai racconti fluviali de Le mille e una notte, di cui era stato avido lettore fin dall’infanzia.

Non voleva più scrivere quei racconti che pure gli avevano dato notorietà e denaro nel mondo delle lettere di New York. Voleva scrivere qualcosa di più profondo, scavare nella psicologia dei personaggi, comporre pagine e pagine come affreschi storici, nei quali inserire riflessioni sociologiche e perfino filosofiche, come in certi romanzi di Tolstoj.

E così, un giorno, si mise a scrivere. Ma subito si rese conto, proprio mentre scriveva, che qualcosa non andava come voleva. La scrittura pareva opporgli una sorta di automatismo connaturato: per quanto le sue intenzioni fossero contrarie a quella forza primordiale, si accorgeva che era troppo potente. La sua penna tornava a intrecciare trame semplici, con personaggi monodimensionali, proprio come quelli che aveva scritto per tutta la vita.

Ma decise che non era finita.

“Ci devo provare ancora”, si disse. E in diverse occasioni si impose di scrivere frasi diverse, di cambiare la struttura stessa della composizione: pensò che fosse necessario intervenire nell’architettura del periodo, costruendo frasi ricche di subordinate, in un impianto ipotattico con cui avrebbe costruito, così immaginava, cattedrali gotiche di carta e inchiostro. Al contrario, nei suoi racconti precedenti in cui aveva sempre fatto largo uso della paratassi di un linguaggio parlato, semplice e diretto, e di uno stile realistico ed epico, dal ritmo rapido e asciutto che tanto piaceva ai giornali ai quali forniva le sue storie.

Ebbene, d’ora in avanti avrebbe cambiato tutto. Si impose di scrivere frasi complesse, aggiungendo subordinate a subordinate in un fluire senza fine. Ma, a un certo punto, come se alle frasi mancasse il respiro, la scrittura si fermava, esitava. E tornava semplice, lineare, al presente indicativo, come un racconto in presa diretta. La storia si snodava limpida come l’acqua di una sorgente di montagna, cristallina e priva di impurità. C’era, in quella scrittura, in quell’esercito nero di segni sulla carta, qualcosa di simile a una partita a scacchi: lui disponeva i pezzi con cura, ma la mano invisibile dell’avversario vinceva sempre. Alla fine, tutto tornava al respiro corto, alle trame semplici, e di nuovo ai personaggi monodimensionali.

Decise di provarci ancora, scegliendo trame più ampie: saghe familiari, storie di regnanti, affreschi interminabili. Ma anche lì, qualcosa lo riportava sempre alle trame povere, alle storie semplici. Era disperato. Non sapeva più come fare.

Finalmente, una notte, ebbe un sogno. La mattina seguente si svegliò pimpante e si mise subito a scrivere ciò che aveva sognato, aveva trovato la chiave di una nuova narrazione e l’aveva trovata in quel sogno. Il marchingegno narrativo trovato nel sogno era la narrazione fatta di sogni che si dischiudevano in altri sogni e così via all’infinito in un gioco di specchi interminabile. Come in una matrioska gigantesca. Era quella la sua strada, quella doveva percorrere per riuscire nella sua impresa. Con la sua nuova narrativa avrebbe finalmente spalancato i segreti della narrazione torrenziale di Tolstoj, dei grandi affreschi di Dickens; avrebbe cavalcato, con la sua penna, le immense praterie della letteratura. Aveva trovato la chiave che gli avrebbe dischiuso nuovi sentieri letterari. E quella mattina scrisse e scrisse le frasi fluivano dalla sua penna in lunghe costruzioni sintattiche sospese quasi nell’aria come scolpite in aeree volute barocche. Le idee fiorivano nel suo cervello e faceva fatica la penna a stare dietro a quelle immagini e compiva sempre uno sforzo più grande per afferrarle e disporle coerenti sulla carta. Quella fatica però era compensata ipso facto dalla realizzazione della pagina che non aveva bisogno di ritocchi o di essere editata ulteriormente, era già perfetta così. Faceva sempre più fatica e la vista cominciò ad annebbiarsi ma la sua mano pareva mossa da uno spirito indomito che, come solchi di un infaticabile aratro, solcavano la pagina bianca tessendo quelle fantasmagorie, quelle incastellature di sogni dentro sogni in una teoria infinita…

 

IL giorno dopo lo trovarono senza vita alla scrivania, con la penna stretta ancora nella mano sull’ultima frase, ancora incompiuta.

«Ispettore, me ne posso andare?», chiese il dottore.

«Sì», rispose l’ispettore French.

«Nel referto ho scritto colpo apoplettico», riprese il dottore.

“Va bene, vada”, fece l’ispettore.

Poi prese in mano il foglio che giaceva sulla scrivania del morto e lesse:

“John fece un sogno. La psicologia vacilla quando cerca di spiegare le avventure del nostro io immateriale durante le peregrinazioni nelle regioni del sogno.
Questo racconto non intende fornire spiegazioni, ma soltanto registrare il sogno di John, una delle fasi più enigmatiche di quella sorta di veglia del sonno, dove avvenimenti che sembrano durare anni accadono in pochi istanti...”

John aspettava nella sua cella di condannato a morte. Dal soffitto del corridoio, una lampada illuminava il tavolo; sopra, un foglio bianco una formica correva da una parte all’altra, e John le sbarrava la strada con una busta.
L’esecuzione tramite sedia elettrica avrebbe avuto luogo alle nove di sera. John sorrise, guardando l’agitazione del più saggio degli insetti.

Nel padiglione c’erano sette condannati a morte. Da quando John era arrivato, ne avevano già portati via tre. Si chiedeva come avrebbe reagito il suo cuore, le gambe, il viso, perché quella era la sua sera.

Pensò che dovesse essere quasi l’ora.

Nella cella di fronte c’era Lentini, il siciliano che aveva ucciso la fidanzata e due agenti venuti ad arrestarlo. Spesso, da una cella all’altra, avevano giocato a dama gridando le mosse all’avversario invisibile.

«Ehi, signor John! Come si sente?»

«Bene, benissimo, Lentini!»

«Mi piace, signor John. Uomini come noi devono sapere morire da uomini! La settimana prossima toccherà a me... E si ricordi che l’ultima partita di dama l’ho vinta io!»

La battuta di Lentini, seguita da una fragorosa risata, incoraggiò John.
Ma era vero: a Lentini restava solo una settimana di vita.

I detenuti sentirono il rumore secco dei chiavistelli. Tre uomini avanzarono fino alla cella di John e la aprirono. John sorrise, sistemò i libri e il portapenne sul tavolo.
Avrebbe voluto parlare, ma non sapeva cosa dire.

Il padiglione era chiamato “l’ultimo miglio”: ventitré metri di lunghezza, nove di larghezza.
Il guardiano dell’ultimo miglio, un uomo enorme, rude ma buono, estrasse dalla tasca una bottiglietta di whisky e la porse a John.

«È l’uso, sa? Tutti ne bevono un sorso per darsi coraggio. Non c’è pericolo di prenderne il vizio.»

John bevve abbondantemente.

«Così mi piace», disse l’agente. «Un buon calmante. Tutto andrà bene.»

Uscirono nel corridoio. L’ultimo miglio era un mondo fuori dal mondo. Tutti sapevano che erano quasi le nove, e che John sarebbe andato alla sedia elettrica.

John si meravigliava di quanto si sentisse sereno, quasi indifferente.
Nella stanza dell’esecuzione c’erano una ventina di persone: impiegati del carcere, giornalisti, curiosi…

E allora John si svegliò. Tremante, sudato, vide accanto a sé la moglie e il figlio.
Capì che l’omicidio, il processo, la condanna a morte e la sedia elettrica erano stati soltanto un sogno.

Baciò la moglie sulla fronte.

In quel momento, arrivò la scarica elettrica.

L’esecuzione interruppe il sogno.

 

 

Il sogno dello scrittore testo di brunotraven2016
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