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Non so spiegarmi, stasera, il perché del tuo amore sconfinato
per quella luna sospesa in un cielo nero, imbrigliata tra rami ossuti,
disegno che appendevi ovunque, da ragazza, dolore stropicciato
o richiamo arcano che nutriva il foglio solo di colori assoluti.
Ho salutato oggi, per l’ultima volta, il tuo corpo ricomposto ad arte
da mani sapienti, ma non eri tu quella donna immobilizzata dalla morte
stesa sotto un velo di organza, anche se la tua semplicità era, si, candore.
Non so capire il senso del tuo ultimo gesto, ma l’eco del tuo dolore
mi raggiunge e m’affresca i ventricoli di notturni e chiari di luna
e non mi dispiacciono le oscurità delle notti, quando la brina
ricama i prati d’inverno e gli alberi denudati tentano invano
di nascondersi tra banchi di nebbia in questo luogo disurbano.
Eppure, stasera la nebbia s’insinua dentro di me e si miscela
con l’umidità dei pianti, ha l’ardore di un oracolo che cela e rivela,
sola m’è compagna e sa che non era tempo di un nuovo memoriale,
ma ugualmente s’apre e mi costringe ad uno scorcio di visuale.
Mi ritraggo accartocciata nella nostalgia, nel vedere la tua impavida Luna
impigliarsi tra i rami di un pioppo, e ti chiamo, ancora, scolpendo la tua runa.
Sussurro il tuo nome tra i denti, esprimendo in un sibilo rabbia e dolenza,
stanca di chiedermi il perché siamo costretti a sperimentare l’assenza.
Vorremmo essere eterni, ma subiamo questi abbandoni cruenti,
e penso a quanto sarebbe bello che tutte le morti fossero solo sonni apparenti.