L' ultimo rosso

scritto da Inkheart
Scritto 4 giorni fa • Pubblicato 4 giorni fa • Revisionato 4 giorni fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di Inkheart
Autore del testo Inkheart

Testo: L' ultimo rosso
di Inkheart

Torno nel mio corpo. Anche oggi. Non è un risveglio, è una condanna.

L'anima rientra di colpo, costretta a tornare in questa carcassa che la trascina sempre più a fondo. È come se ogni notte mi abbandonasse per non assistere alla mia rovina, e ogni mattina fosse costretta a rientrare, a subire il dolore, il peso di un'esistenza che non vuole più sostenere. Ma anche stavolta è qui.

Un ritorno violento, un pugno nello stomaco.

Apro gli occhi e subito li richiudo. La luce mi trafigge il cervello, troppo dolore.

Dove cazzo sono?

 Dio, mai più.

Giuro a me stesso che questa sarà l'ultima volta.

Ma l'ho già detto ieri. E il giorno prima. E quello prima ancora.

Sarà così ogni giorno, per sempre, se mai esiste un sempre. Non credo più nel sempre, proprio per questo sono così. Il sempre mi ha strappato l'anima e mi ha relegato alla perdizione.

Provo a muovermi, ma il mio corpo è di piombo. Le ossa sembrano macigni, i muscoli legati da corde marce.

Il freddo delle piastrelle mi penetra nella pelle, ma sotto il gelo sento l'umido. Viscido, appiccicoso.

L'odore arriva prima della vista: un marciume dolciastro che mi strappa un conato. È il mio vomito, sì, ma anche qualcos'altro. Bile e quel filo di sangue che ormai c'è sempre.

Mi tocco la bocca. Le labbra sono crepate, la lingua gonfia. Il sapore è di morte sotto i denti.

La camicia incollata al petto, un impasto di alcol e saliva rappresa. Il tessuto impregnato mi aderisce alla pelle, un sudario unto che mi soffoca.

"Alzati."

Una voce. Aspra, secca, senza pietà.

Provo a rispondere, ma la gola è arida come il deserto. Le mani tremano mentre cerco un appiglio, le unghie graffiano il pavimento, il fiato è un rantolo.

"Sei ridotto a uno schifo."

Mi aggrappo disperatamente al lavandino. Le dita scivolano sul bordo bagnato. Apro il rubinetto. L'acqua esce e ci infilo la testa come in un patibolo. Il getto mi schiaffeggia la nuca, penetra nelle cavità del cranio, mi riempie la bocca di cloro e metallo arrugginito. Deglutisco a fatica. Il primo liquido che passa in gola da ore.

Alzo lo sguardo allo specchio. Ho i capillari esplosi negli occhi, due pozze di sangue. Le labbra sono due strisce di cuoio screpolato, incollate dai residui di vomito.

Dietro di me vedo qualcuno.

"Chi cazzo sei?"

"Quello che resta quando tutto il resto è andato a puttane."

Mi trascino fuori dal bagno, il pavimento ondeggia sotto i piedi. Un lamento soffocato mi arriva all'orecchio.

Alzo lo sguardo.

Randall, il mio unico amico, è accovacciato vicino alla porta con la testa bassa.

Il pavimento è sporco vicino a lui: merda e urina.

L'odore mi colpisce come un pugno e mi vomito tra le mani.

"Non sai badare a te stesso, pensi di occuparti di un altro essere vivente?"

È mezzogiorno, non l'ho portato fuori.

Lui mi guarda. Occhi bassi, coda immobile.

 Colpevole.

 Come se fosse lui a dover chiedere scusa.

Mi avvicino barcollando. Lui non si muove. Solo un lieve tremore di paura nel corpo magro. Lo accarezzo, le mie dita affondano nel suo pelo sporco. Il senso di colpa mi artiglia il petto.

Fame, sete... merda...

Mi passo una mano sul viso, sento la barba ispida.

Dovrei pulire, dovrei portarlo fuori.

 Ma non ce la faccio, non adesso.

Un suono vibra nell'aria.

Il cellulare.

Mi volto di scatto, il cuore accelera. Guardo lo schermo.

Lei.

Per un attimo il cervello si svuota.

Poi il panico.

Mi ci vuole un secondo per ricordare: oggi è il giorno.

La vedo per un attimo, nella mia testa.

 Una maglietta con una stampa che non riconosco, una manciata di capelli raccolti sulla nuca, gli occhi bassi mentre giocherella con un elastico.

Rebecca. Le uniche due ore, ogni quindici giorni.

Mi dirigo in cucina appoggiandomi al muro. Apro la porta e il tavolo davanti a me è un altare profano. Quattro bottiglie vuote fanno la guardia all'ultima rimasta, ancora lì, mezza vuota. O mezza piena.

"Buon vino fa buon sangue, vero?"

La voce mi tormenta.

"Un tempo lo dicevo con fierezza. Mio nonno lo diceva sempre. Era un uomo forte."

"Morto di cirrosi." Ride la figura.

Mi siedo. Le gambe molli, il respiro corto.

Stringo il bicchiere. Le dita mi tremano. Lo sollevo, un brindisi incerto.

"Il sangue di Cristo."

Cazzo, sto delirando.

Chiudo gli occhi. La testa pesa, il corpo sprofonda.

Abbasso lo sguardo. Le dita sfiorano il bordo del bicchiere, ne tracciano i contorni come si accarezza una ferita.

Il bicchiere mi scivola dalle dita, schiantandosi sul pavimento.

Il vino si allarga. Rosso. Denso.

 Come sangue.

 Probabilmente sono morto.

"Manca poco, non ti preoccupare."

"Basta."

"Basta cosa?"

Mi stringo le tempie, le unghie affondano nella pelle.

"Basta parlarmi."

"Se non parlo io, chi lo fa?"

Mi trascino fino alla finestra per cercare la luce. Apro la finestra e l'aria gelida mi colpisce in faccia.

Sotto di me la strada.

Lunga, crepata, consumata dai passi di gente che non sa più dove andare.

 Una cicatrice d'asfalto, nera e ruvida, come la mia vita.

"Fallo!"

Mi stringo alla finestra. Sento il vuoto chiamarmi.

"Lo faccio!"

Il vento mi scompiglia i capelli. Chiudo gli occhi.

"Falla finita!"

"Vaffanculo!"

Il cuore mi martella nel petto.

"Hai paura perché non potrai più mangiare le ciliegie."

Apro gli occhi. Mi blocco.

Le estati in campagna, il cesto pieno, le dita macchiate di rosso sembravano insanguinate ma era il sapore dolce della primavera.

Le gambe mi tremano. Silenzio.

 Poi una domanda, sussurrata.

"Come ti chiami?"

"Coscienza."

Un attimo di silenzio, poi un tuono piomba in casa: il suono del citofono.

Non voglio farmi vedere così.

"Allora finalmente riesci a sentirmi."

Mi allontano dalla finestra. Lo specchio, alle mie spalle, riflette solo me.

Mi guardo, davvero. Vedo le occhiaie, il sudore sulla fronte, le mani scheletriche.

 Vedo la rovina, la resa, il fondo.

E vedo che sono ancora vivo.

Barcollo indietro, mi lascio cadere all'indietro.

Mi accascio contro il muro, le mani nei capelli, il respiro a singhiozzi.

Non voglio piangere. 

Ma le lacrime vengono giù comunque, bollenti, salate, le prime da chissà quanto tempo.

Mi bruciano la pelle, scivolano sul mento.

Il petto si contrae. Il dolore esplode, crudo, viscerale.

Tutta la rabbia, la vergogna ma soprattutto il senso di colpa.

Tutto, tutto insieme.

Mi stringo le ginocchia al petto.

Il fiato corto, il corpo scosso.

Mi sento soffocare.

Randall si avvicina, si accuccia accanto a me, la testa sulle mie gambe.

 Il suo respiro caldo contro la mia pelle.

Il citofono ronza di nuovo.

Rebecca.

Mi sollevo da terra, le ginocchia che cedono.

 Il palmo destro affonda in una scheggia di vetro.

 Un dolore acuto, pulito, diverso da tutto il resto.

 Il sangue sgorga vivo, rosso brillante sulla polvere grigia del pavimento.

Randall si avvicina, annusa la ferita, poi alza lo sguardo.

I suoi occhi, due pozzi di pazienza infinita, mi fissano.

 La sua lingua ruvida scivola sul taglio, un gesto antico, istintivo.

 Sta cercando di guarirmi.

Qualcosa si spezza dentro di me.

"No."

Gli dico, la voce un graffio.

"Stavolta no."

Mi strappo via dalla scheggia, il sangue che stilla lungo le dita.

Non importa.

Mi trascino in bagno, apro l’acqua della doccia al massimo.

Bollente.

Un vapore acre riempie la stanza mentre mi spoglio, i vestiti incollati al corpo come una seconda pelle marcia.

L’acqua mi scotta, lava via strati di sudore, vomito, disperazione.

Chiudo gli occhi, lascio che mi bruci, che porti via tutto.

Quando esco, il vapore ha appannato lo specchio.

Con un gesto lo pulisco, mi osservo: occhi rossi, sì, ma vivi.

Trovo dei vestiti nell’armadio. Non puliti, ma meno sporchi.

 Li indosso in fretta.

Randall mi aspetta sulla sog
lia, la coda immobile ma gli occhi attenti.

Il citofono insiste ancora.

Lo prendo e rispondo:

"Ci sono."

E voglio esserci.

L' ultimo rosso testo di Inkheart
2