Quando la donna usciva il vento entrava.
Non importa quanto in fretta la donna chiudesse la porta, né quanto serrate fossero le imposte: il vento entrava.
Quella volta era passato da una finestra.
La donna l’aveva chiusa prima di uscire – lo faceva sempre, controllava due volte tutti gli ingressi della casa: le finestre, le porte, l’uscio sul retro, lo sportello della cantina, gli abbaini, persino la gattaiola in disuso da quando, dodici anni prima, Smokey era sgusciato nottetempo per finire sotto una Ford diretta in una corsa disperata verso ovest – ma non importava.
Adesso la finestra era sollevata a metà e la tenda sventolava come una ballerina che ha trovato un partner inatteso.
La donna non riuscì a trattenersi dallo scoccare un’occhiata alla stanza dietro la tenda, buia per il contrasto col fulgore del giorno. Naturalmente non c’era nessuno.
Non c’era mai nessuno.
Si passò le mani sui fianchi del vestito candido della nonna, quello che indossava ad ogni ora d’aria.
Le piaceva quel vestito.
Le ricordava un’epoca di torte fatte in casa e grandi radio da cui usciva jazz caldo come il bosco dopo il tramonto – un’epoca che la donna non aveva vissuto, ma che doveva essere esistita e che doveva (doveva) essere stata felice.
Il vento giocherellò con l’orlo della gonna e la donna percepì un residuo di patchouli – o forse solo il suo fantasma – che subito si disperse nell’aria. La tesa del grande cappello vibrò appena.
La donna fece scorrere le mani sul lino bianco dell’abito. Le tasche erano vuote e minuscole. Non erano state concepite per contenere un telefono (un oggetto da cui, un tempo, la donna non si sarebbe mai separata) ma non importava.
Non c’era nessuno da chiamare.
Non c’era mai nessuno.
La donna chiuse gli occhi.
Oltre il cortile, oltre la strada, di là dal campo e dal bosco, il sole stava tramontando.
La donna non lo vedeva, nascosto com’era dagli alberi, ma ne percepiva il calore, ancora un po’ troppo intenso per essere davvero gradevole.
Il vento rinforzò e, anche senza andare a controllare, la donna seppe che aveva aperto una finestra sul retro, magari al piano di sopra. Ora galoppava impetuoso attraverso la casa, facendo oscillare i lampadari, sollevando la tovaglia, sfogliando i libri, afferrando i fogli di carta abbandonati e disperdendoli chissà dove.
Il mondo si era fatto più... presente.
Non era una distorsione dei sensi provocata dalla solitudine. Le superfici erano più rugose, o più lisce, i colori più accesi, gli odori più penetranti, i rumori più forti.
Prima ancora di vederla, la donna percepì la volpe uscire dal bosco, attraversare la strada e dirigersi verso la casa (naturalmente, il vento aveva aperto il cancelletto d’ingresso che cigolava lieve come un grillo meccanico).
L’animale si fermò proprio davanti al vialetto e scrutò la donna coi suoi piccoli occhi curiosi, come se non avesse mai visto un essere umano – e forse, dato che sembrava poco più che un cucciolo, era davvero così. Alla fine decise che quella bizzarra creatura non meritava uno sguardo più approfondito e trotterellò via.
Il morso delle volpi trasmetteva la rabbia, ma – avevano detto gli scienziati – il virus che aveva provocato la pandemia era di tutt’altra specie. Aerobico.
Una porta, dentro la casa, sbatté con un tono di rimprovero.
Avevano provato a depurare l’aria, ma non c’era stato il modo, o il tempo.
Un avvolgibile al piano superiore scattò in su, sventagliando nell’aria tersa come la bandiera di un esercito sconfitto.
Il vento – l’intruso – entrava sempre.
NDA: per quelli che non fossero riusciti a trovarlo - ma basta digitare "Hopper: Summertime" - l quadro, del 1943, raffigura una giovane donna vestita di bianco in piedi sotto il porticato di una casa bianca. L'interno è buio per contrasto e, alla sua sinistra, una tenda sventola su una finestra aperta.
L'intruso testo di Rubrus