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Vivere, anzi saper vivere, è una cosa seria.
Bisogna essere tosti, ottimisti, bisogna aver voglia di sapere il domani e non piangersi addosso perché il mondo è cattivo. E' facile prendere un foglio e scriverci sopra recriminazioni e rancori, brutti ricordi e vecchi dolori. Ognuno di noi ha, in un angolino della propria mente, un compagno di scuola bastardo dentro che lo ha fatto dannare o, peggio, è stato lui stesso a far dannare un altro bambino. Tutti abbiamo perso per strada qualcuno che era una nostra parte di cuore e nessuno può dire di essere stato sempre felice, nessuno. Credo di aver insegnato ai miei atomi e alle mie cellule a moltiplicarsi col sorriso già da quando a quattro anni ho litigato con la morte e l'ho convinta a lasciarmi ancora qui a pascolare per poter diventare grande.
Ho scelto un lavoro che mi aiuta a curare il dolore, ho allenato l'empatia per ottimizzare l'ascolto e l'abbraccio e dopo ogni batosta divento più forte, il sorriso diventa più contagioso e sono poche le cose a cui ho voltato le spalle.
Ho imparato tanto quel giorno che il mio migliore amico è passato a salutarmi. Aveva gli occhi lucidi e due tondini rossi sugli zigomi che lo facevano somigliare a Heidi. Diceva che aveva voglia di andar via, ma non osava perché sua moglie aveva bisogno di lui. Gli dissi di andare, di partire, che avrei pensato io a sua moglie, che l'avrei aiutata e ho insistito, l'ho spinto ad andare perché pensavo che una vacanza avrebbe potuto fargli bene. Ha ringraziato ed è andato via.
Un'ora dopo era morto, impiccato ad un tiglio che si preparava all'autunno e io ho rischiato di morire dentro per non aver capito, ma ho mantenuto la promessa e sono stata vicina a sua moglie sino a che è stato necessario.
Ho imparato molto anche nei miei vent'anni quando un tizio che avevo sposato ha cercato di uccidermi sette volte perché pensava che io fossi una sua proprietà, ma me la sono scampata e ancora credo nell'amore. Devo avere qualche gene dei gatti fra le spire del mio DNA perché me la cavo ogni volta.
Da buona barbaricina ho una capacità di silenzio e di osservazione che mi aiuta a non essere vittima consenziente di nessuno. Ho nelle vene sangue di bandito e sangue di santo, qualcosa che dentro di me mi condanna a quel silenzio che ho fatto mio come prima ratio già da bambina, ma ho anche un tasto invisibile che attiva la mia voglia di raccontare e di parlare con chi, di solito, allontano.
Ho due prozie, fra le tante che hanno abitato nelle pagine di Grazia Deledda, che sono state beatificate. Beatificate. Non è roba da poco.
Una di loro era una ragazzina morbida, bella come il sole, giusta giusta per rappresentare la martire santa, ma è l'altra la mia preferita. Fuggita di casa nel 1905 per vivere alla macchia col fidanzato bandito, sospettata di essere complice di un omicidio, ha vissuto sul supramonte di Orgosolo per diciannove anni. E' tornata solo per morire di TBC sulla porta di casa. L'hanno scoperta ancora vergine e Wojtyla ha pensato di beatificarla per questo.
Il codice barbaricino allora era una cosa seria e io me lo porto tatuato nell'anima.
Resilienza genetica, la definirei, e io l'ho ereditata. Una rete neuronale che mi avvolge la mente e stratifica ogni emozione perché io non abbia scampo e non possa fingere di non sapere.
Io so.
Io so e vorrei insegnare come si neutralizza il fumo nero che crea chi si percuote, chi si piange addosso, chi fa la vittima del mondo e vive con dentro un rancore rancido che avvelena.
Vorrei che imparassero, ma queste sono cose che non si possono insegnare, si possono solo scegliere.
Chi non impara che i propri dolori servono ad alleviare i dolori degli altri è solo un piccolo essere che non ha capito come si fa
a diventare grandi.