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Ho conosciuto molte anime di mimose pudiche, anime che se tenti di toccarle nel profondo, si chiudono a riccio. Oramai le riconosco al primo istante, in quel loro vivere ai margini, in quel leggero pudore delle piume, poco prima di ritirarsi nel silenzio cocciuto di chi vorrebbe volare ma non crede di poterlo fare. “Ci sono voli proibiti”, pensano, “ci sono voli proibiti. Se li fai poi cadi al suolo e farsi male non piace a nessuno.” La mimosa pudica non ha vergogna, come molti sono propensi a pensare, la mimosa pudica non sa dove stare. Sogna d’essere sempre soffione fiorito, spruzzato di rosa diluito nel pallore del bianco, e non vorrebbe trasformarsi in baccello, portatore di semi d’inchiostro dipinti, per non volar via e posarsi su terre a lei ignote, portatrici di cicatrici. Non è nemmeno egocentrica, anche se lo può sembrare, è solo lì, sospesa, a metà tra il respiro dell’aria e il rombo digestivo della terra, sembra ghiaccio apparente mente brucia dentro con la fiamma del desiderio di voler tutto quello che non ha, che non fa, che non dice. Guarda da lontano, sognando d’esser un predatore che preda e poi la tocchi, piccola tremula anima fogliare e zac! il sipario si chiude. E tutto chiude, non lasciando spazio all’azione creativa di vento, di sole o di nube, di Agape, d’Eros o di Philia, di stelle, di fulmini o di Luna.
Un giorno ho visto una pudica viola nascosta tra fili d’erba lussureggiante guardare la pudica mimosa che vibrava, sola, tra altre mimose danzanti. Non ballava un valzer. Si muoveva suadente e scompigliata, ma quando s’accorse d’esser guardata, s’incupì e si nascose dietro le timide foglie vogliose. La viola spostò un filo d’erba curioso e tese un petalo a mezzo cielo, ricevette uno sguardo sincero, un sorriso tremulo nascosto da un velo. Parlò per giorni chiamandola incessantemente, la mimosa ascoltava, talvolta rispondeva con garbo, concedeva e poi si ritirava, estraniandosi al minimo fallo.
Sfiorì in un giorno d’ottobre, senza aver donato il suo animo all’animo intristito della pudica viola, incapace di credere nelle metamorfosi del tempo e dell’amore. Inaridì, pensando di non essere mai stata né carne né pesce, né ghiaccio né fuoco, né fumo né arrosto, né capo né coda, né arte né parte, né viva né morta. Mutò in baccello appeso, pronto a schiantarsi, pronto per attecchire, inconsapevolmente, altrove.
Il baccello cadde sopra le foglie della pudica viola, che l’accolsero nell’incanto dormiente dell’inverno. Lo cullarono con la promessa di rivedersi ancora nello spazio magico di un nuovo equinozio.
Meneghelli Emanuela 11/09/2025