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Io che volevo la luce;
sì, quella che danza sui volti sereni,
che ride tra i bicchieri d’estate,
che profuma di pane e mattini tersi.
Li guardo, gli altri, i vivi,
con i loro sorrisi senza ferite,
e penso: forse anch’io potrei.
Forse potrei smettere di portare tempesta.
Mi sveglio con promesse pulite,
mi vesto di sole come d’un voto,
mi dico che oggi non cadrò,
oggi la notte mi troverà distante.
Ma poi…
la luce scivola come sabbia,
ed ecco il solito richiamo,
dolce, buio, familiare.
C’è una pace strana nell’ombra,
una voce che mi sussurra di restare.
E io resto.
Tra ceneri tiepide e pensieri che bruciano piano.
Guardo il mondo: chi ama, chi danza,
chi parla come se l’eternità fosse gentile.
Li amo, davvero.
sono fiamme che non conosco,
sono miracoli che non mi vogliono male.
Eppure, ogni sorriso mi trafigge,
ogni risata mi ricorda
che non sono fatta di quella stoffa leggera.
Io sono nebbia, sono ferro, sono notte che si pente.
Vorrei imparare la lingua del sole,
credere che il bene basti,
che la vita non sia un esercizio di resistenza.
Vorrei, e non riesco.
E così ritorno al mio limbo,
tra speranza e resa,
con la luce negli occhi
e il buio nelle vene.
Ma giuro,
non smetterò di tentare.
Anche se il cielo mi nega il suo abbraccio,
io continuerò a salire,
con le mani sporche di ombra,
verso un’alba che, forse,
non mi vuole…
ma mi sente.