Opera

scritto da Andreskesh
Scritto 2 anni fa • Pubblicato 2 anni fa • Revisionato 2 anni fa
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Seconda parte de “Libertà di un pensiero”.
- Nota dell'autore Andreskesh

Testo: Opera
di Andreskesh

Quando senti ormai l’anima pesante; fin troppo pesante per poterla sostenere nel tuo gracile corpo. Quando senti che i tuoi sentimenti sono in fibrillazione, senti la pelle anserina, il cuore che batte all’impazzata, le gambe e le braccia che iniziano a tremare senza mai fermarsi. Quando senti che tutto intorno a te si fa piccolo, buio, insignificante e non sai dove ti trovi o il motivo per il quale sei lì in quel posto sconosciuto ed abbandonato.

Quello è il momento in cui vuoi sentirti libero.

Mi ritrovai quel giorno…o forse dovrei dire quella sera. Quella notte. Insomma, al crepuscolo di quel giorno di ottobre. Mi ritrovai in riva di un laghetto, tutto solo. Il vento muoveva le piante, creando quella dolce sinfonia che si mescola con il battito del cuore nel momento in cui accarezza la pelle del tuo viso che, dal freddo, ormai si era irrigidita. Ed egli, suona la sua melodia come dieci archi alla Scala di Milano.

Dall’altra sponda del laghetto, il fievole gracidio delle rane, par come il ticchettio del metronomo che detta il ritmo a questa orchestra naturale; alternando il tono vocale, in perfetta sintonia, con il canto sopraffino e da tenore delle civette appollaiate sul ramo di un albero che, affrontato il destino avverso di quel autunno precoce, aveva perso ad una ad una tutte le sue foglie, mostrando, sensualmente, il suo tronco curvo e spoglio e ruvido.

Accanto a me, scrutai una piccola cascata creata dalle gocce della pioggia dei giorni precedenti che scrosciava giù da una roccia multiforme, fino a cadere e baciare la superficie dell’acqua come un pianoforte che suonava in do diesis minore.

E ascoltavo e mi avvolgevo e mi allietavo in quella maestosa opera che avrebbe ispirato anche Chopin nel momento di massima composizione di un altro Notturno.

E pensavo a me. Riflettevo su ogni aspetto della mia vita fin da allora.

Perché quando la mente vaga così lontano da non saper nemmeno più come ritornare indietro, quasi a disperdersi senza accorgersi della strada che si è percorso, quando la propria anima non riconosce più la casa dove vive; in quel momento si accorge che, una casa, non l’ha mai avuta. Non l’ha mai voluta e mai la vorrà.

Siamo stati fin troppo bravi e cauti e timorosi a cancellar le nostre tracce, a nasconderci l’un dall’altro, a fare in modo di dimenticarci quale fosse il nostro punto di partenza che forse ci siam scordati persino dove dovevamo arrivare, da chi stavam scappando e perché scappavamo.

Ci sono momenti che abbiamo bisogno di libertà e di nasconderci da noi stessi e dal nostro corpo e stare lì, soli, alla riva di un laghetto ad ascoltare  il Mondo che ci parla con quella musica ancestrale, naturale. Intatta.

Perfetta.

In quel laghetto dai mille colori blu, giallo, verde, arancio, rosso, viola che si mischiano con il cielo semi-cupo che pian piano si lascia travolgere dalla notte. E senti l’anima libera, leggera e leggiadra e non senti più il peso di qualsiasi parola o pensiero: è lì che ti senti te stesso. Mentre gli archi del vento creano la melodia, il metronomo delle rane scandisce il tempo come il pendolo nella sala da ballo di un castello Medioevale, le civette cantano e il pianoforte compone l’Opera.

Ti sarebbe piaciuto.

Cazzo se ti sarebbe piaciuto!

Tu che incarnavi qualunque genere di musica che, seppur non apprezzavo, avrei ascoltato per ore, giorni, anni. Il che amavo.

I tuoi capelli, con quella tua chioma dorata a l’aura sparsi, così profumati e morbidi che accarezzavi dolcemente come le corde di un’arpa. Accarezzavano la mia irrigida pelle fino a farla sciogliere nel calore di un tuo sorriso da bambina.

Le tue mani che accarezzano il mio corpo come i ciocchi d’erba che si muovono contro di me, quasi a ballare questa musica innocente.

E mi sdraio sul prato ed inizio a pensare.

A me.

A te.

A noi sul letto mentre facciamo l’amore. Tu sopra di me nuda, grondante di sudore ed io che ti guardo in ogni tuo movimento, ogni tua espressione; la tua mano che mi stringe forte al collo quasi a dirmi “non ti muovere! Sii inerme al mio cospetto!”.

Seguiti coi tuoi movimenti sensuali come il cobra al richiamo del pifferaio indiano ed io guardo il soffitto, le pareti della stanza inghiottite dalla tua voracità e dai tuoi artigli che lacerano, dall’euforia, la mia faccia, le mie braccia, il mio petto…il mio cuore.

“Sai! dovrei mettere uno specchio qui sopra il mio letto…”;

“Ma a che cazzo stai a pensare? Mi fai passare ogni minimo pensiero perverso in questo momento…sono qui sopra di te, che scopiamo, che cerco di darti piacere e…TU! Invece che guardarmi, guardare il mio seno ballerino, sentire il mio culo gremito di sudore, ascoltare il mio gemito…pensi solo ad un fottutissimo specchio?! Ti sei fuso il cervello?!”.

Seguì del silenzio. Non dicemmo una parola. Solo il cigolio del letto mentre sbatte ripetutamente contro l’angolo del mobile appoggiato contro il muro della stanza; come la porta di un vecchio veliero che, dalla tormenta, si scaglia contro l’uscio antico e consumato della stiva…le movenze sono quelle ragazzi..!!

Non dicevo parola…alla fine non riuscivo! Le sue mani intorno al collo, stringevano sempre di più quella morsa nella quale mi trovai.

Il Cobra che agguanta la preda fino a farla asfissiare, pronto ad inghiottirlo in un boccone senza mai lasciarlo. E mi lasciavo trasportare, come se non mi importasse della situazione, quasi come se mi piacesse ed eccitasse il fatto che l’abbia fatta incazzare o spronare quasi ad impegnarsi di più per farmi inebriare. Iniziò a pompare più forte, fin quasi a rompere il mobile dietro il letto ed io che mi dimenavo, in piccoli movimenti circolatori, spingendo sempre più forte e farla impazzire.

Lei che guardava in alto mentre mollava la presa dalla mia giugulare per strapparmi quel che ormai restava delle mie braccia segnate ed io che la stringevo alla vita, affondando le mie unghie nella sua carne fanciulla.

Guardai il soffitto, nello stremo delle forze e sussurrai:

“Devo mettere uno specchio, qui sopra il letto. Sul soffitto. Perché non mi basta vederti gemere, sudare, vedere il tuo seno o la tua pancia che si muove dinanzi a me. Io ti voglio vedere tutta, in tutte le tue forme: dai capelli che si muovo che par cullati dal vento come le foglie dell’albero nell’autunno mite della campagna, alle gocce di sudore che scorrono giù per il tuo sedere come l’acqua piovana irrompe sulla superficie del lago. Non mi basta sentir il rumore del letto, mentre stai dinanzi a me…sopra di me! Che scandisce il tempo come se fosse il metronomo di questa nostra orchestra. Ti voglio tutta! Non solo la tua voce leggiadra da civetta notturna. Io ti voglio e così…non ti ho affatto”.

Mi svegliai, eccitato. Come se non fossi qui con la mia mente, con la mia anima che, finalmente, riuscì ad avere quell’attimo di libertà.

Mi guardai intorno e vidi che il buio.

Le luci del lago, iniziarono ad esser solo di un colore blu notte.

Le rane rincasarono.

Il vento cessò.

Restammo solo io e le civette le quali erano intente a cercar qualche preda da divorare.

Restai attonito per qualche minuto, seduto lì su quel prato che aveva preso la sagoma del mio corpo.

“Per oggi ho riflettuto fin troppo..” pensai.

Mi alzai e tornai a casa.

L’amore fa bene al cuore ma fa male all’anima.

Opera testo di Andreskesh
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