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Questa è la mia idea di vita: un pendolo che oscilla senza mai fermarsi.
Racchiude in sé la concezione di paradiso, purgatorio e inferno.
Siamo dèi di noi stessi, capaci di creare e, a volte, distruggere il cammino a cui ci destiniamo.
La ritmicità di questo pendolo, a tratti, sembra bloccarsi in nebbie fatte di tormento, nella sospensione del purgatorio. Siamo consapevoli che il culmine della felicità non esiste? Non è cinismo: è soltanto la capacità, per me stessa, di osservare una realtà che spicca da sempre. Sono piani intenzionali e conseguenti che ci portano a quel movimento che punta verso l’alto, vicini a quella luce.
Ho visto persone prendere il pendolo e scagliarlo a terra, in momenti di rabbia, ignari del danno irreparabile che si stavano arrecando. Una volta rotto, l’altalena cessa di esistere: si viene catapultati in uno stato d’ira che difficilmente evaporerà. Un eterno ritorno che lascia persone incomplete, mai concluse. Fino alla morte.
L’inferno non è questo: è il crollo, la ferita, il sangue che pulsa nelle vene come ghiaccio pronto a farci esplodere. La capacità di guardare negli occhi i nostri demoni e le nostre paure renderà quella pendolarità più spedita e stabile, conducendoci a una condizione di paradiso.
Ho visto questa mutabilità negli anni. L’ho sempre osservata negli altri e in me stessa, come fossi al tempo stesso cavia e scienziato, senza mai coglierne il nucleo fondamentale: il perché di quella corsa su e giù senza sosta, a volte solo rallentata o apparentemente in stasi.
L’accettazione degli stati — del fantomatico “qui e ora”, che tanto fatico a comprendere, perché il mio cervello non mi consente in modo semplice di starci — significa rendersi consapevoli di poter restare anche nella discesa più crudele. Entrarci dentro, assaporarne il gusto metallico che stride tra i denti come vetro masticato.
Mi piace descrivermi come un sasso in fondo al mare, quando ho i miei fermi nell’Ade. E non sono pochi. Una parte di me ha sempre pensato che non fosse giusto, che fosse doveroso proseguire e andare avanti, non pensarci. L’altra parte — che ancora trattenevo — spingeva invece a navigarci in mezzo, come fosse una chiamata. E, in fondo, non era così male. Un giorno, poi un altro, e piano piano il pendolo riprendeva potenza, tornando alla salita.
Col tempo ho capito che smontare le cose mi è sempre piaciuto, non tanto manualmente quanto concettualmente. Questa scoperta mi ha permesso di accelerare il processo, fidandomi finalmente delle mie stesse mani, che un tempo non riuscivo nemmeno a percepire.
La vita cammina spedita: una supercar che esce da un box con un ruggito, pronta a sfidare qualsiasi curva. A volte va in panne; altre, una ruota si consuma. Ma non si deve mai fermare.
Edvige