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Sulla spiaggia di Cutro
Li hanno lasciati affogare.
Nel mare nero. Nel silenzio denso. Nella vergogna che ci macchia.
L’acqua scura inghiottiva la notte,
come gli occhi di chi si ostina a non vedere.
Novantaquattro nomi strappati,
poi corpi inerti, infine freddi numeri.
Trentacinque bambini: futuro spezzato.
Un’eco muta che non giunge alle aule sorde,
non scalfisce cravatte immacolate,
non smuove chi siede su troni di potere.
Li hanno lasciati affogare.
Anche nel tribunale dell’oblio.
Nessuna mano tesa dallo Stato assente,
solo promesse sgonfie, relitti di gommoni bucati.
I soccorritori chiamati imputati.
Gli scafisti, fantasmi nei sogni.
I veri colpevoli, protetti da scudi e silenzi uniformi.
Giustizia, dove ti nascondi?
A chi rispondi, se non al grido muto di chi muore?
Non un velo sulle bandiere,
non un fiore nei palazzi gelidi.
Solo sigle sindacali inerti,
governatori proni al fischio del comando,
ministri che oltraggiano i morti
accusandoli del proprio tragico destino.
Eppure qualcuno guarda ancora.
Qualcuno ostinato scrive.
Grida la rabbia, canta il dolore,
piange lacrime amare.
Non per sterile retorica,
ma per non recidere il filo
che ci lega all’umano.
Noi siamo quei corpi straziati.
Noi siamo quei nomi perduti.
Noi siamo quella spiaggia insanguinata.
E se lo Stato colpevole dimentica,
noi — memoria viva — ricorderemo.
Se la sua voce tace,
noi urleremo la loro storia.
Franco