Morire? È la cosa più facile di questo mondo. Insomma, è vero, forse è un po’ doloroso. Come quando ti sbattono fuori da un treno che corre a tutta velocità e vai a finire contro una roccia appuntita rompendola con la tua testaccia dura. Ma, dopo qualche volta ci fai l’abitudine. Io, per esempio sono già morto nove…no aspetta dieci volte, se contiamo anche quella del treno. Lasciate che mi presenti: non ho un nome, sono solo un Atto di Reincarnazione dell’ottantesimo livello, quello più infimo, quello dove ti succedono le cose più strane. Non mi piace particolarmente questo lavoro, ma le decisioni del Padreterno mica si discutono, giusto?
Torniamo alla morte. La prima volta me la ricordo ancora, ero un cavernicolo di nome Gnut. So già cosa volete dire: “Gnut, che nome abusato e patetico, quasi come Paolo o Luca dei giorni nostri. E avete ragione, ma io ero uno dei pochi in quell’epoca che aveva anche un cognome, retaggio di un mio illustre avo che, con lungimiranza e ingegno, inventò la ruota di roccia. E la prima cosa che fece, alla presentazione avvenuta davanti alle autorità, fu quella di darsela bella secca su un piede. Da lì il mio cognome, che era Ahia! Gnut Ahia. Non vi dico quanto sarebbe potuto andarmi peggio vista l’abitudine del mio avo a tirare in causa Torok, il nostro Dio d’allora, ogni volta che qualcosa andava storto: Torok di qua, Torok di là ecc.…
Tra l’altro un suo bisavolo fu l’inventore delle bestemmie, dopo che accidentalmente picchiò la testa contro un masso spuntato, quindi era praticamente un retaggio di famiglia: una legacy, com’erano usi dire in paleoinglese dagli snob delle caverne di sopra, quelli che ritengono che parlare un’altra lingua sia più fico.
E così noi, per confermare che la loro lingua era migliore della nostra…ce la siamo mangiata, insieme a tutto il resto: è stata una grande festa, anzi un party, come avrebbero detto loro!
Ero anche l’unico troglodita ecologista dell’età della pietra. Diversamente dagli altri abitanti delle spelonche che indossavano vere pellicce di tigre dai denti a sciabola, la mia era di poliestere. Lo ammetto, ero anche molto pavido e, non so se lo sapete, ma quelle dannate tigri sono molto grosse, cattive e affamate!
Andavo in giro bel bello tra la gente della mia tribù sfoggiando ogni settimana una pelliccia diversa – costavano così poco ed erano così varie: mammut, leone di montagna, gorilla albino, bradipo gigante carnivoro ecc.
Finché, uno sfortunato giorno, a quell’idiota del mio vicino di grotta Krug “Boia che Male - perché aveva inventato quel gioco stupido nel quale schiacci le tue noci tra due grandi sassi…e per “noci” intendo i testicoli… non è venuta la geniale intuizione d’inventare il fuoco?
“Bello”. Dico io, ammirando quello svolazzare di fiammelle gialle e lo svolgere saettante nell’aria dei lembi ardenti. Fino a quando uno di quegli stramaledetti lembi si attacca alla mia pelliccia di poliestere finto armadillo peloso. Ricordo soltanto una gran luce e una fortissima puzza di pollastro bruciacchiato!
La seconda volta che morii ero uno degli assaggiatori di Ciro il Grande, imperatore della Persia. Capace condottiero eh, nulla da dire al riguardo. Ma come uomo non era proprio un gran che, anzi, era una vera e propria carogna. Temeva, non si sa bene perché, che qualcuno gli avvelenasse il cibo che portava alla bocca, così aveva costituito il corpo ufficiale degli “Assaggiatori di Corte”. Io, nella lista ero il centoduesimo e, pochi mesi dopo il mio arruolamento, venne anche il mio turno. Era appena finita la grande stagione dei banchetti ed era stato un vero massacro. Chiariamo una cosa, non si entra volontariamente nel corpo degli Assaggiatori a meno di aver preso da bambini una bastonata così forte alla testa da averla acciaccata permanentemente. Di solito questo onore spetta ad assassini, ladri, traditori e tele imbonitori. Ti prendono cortesemente da parte e ti chiedono: “Vuoi diventare assaggiatore oppure preferisci che ti appendiamo a quel lungo palo acuminato e ben ingrassato, così che passi meglio nel posto dove deve passare?”
Alcuni, i più coraggiosi, scelgono la morte veloce. Io quella lenta.
Per amore di Moloc, le prime volta ho gustato bocconi davvero sopraffini: frattaglie di capra gravida condite con occhi di carpe, pavone alla brace pieno di testicoli di montone, o anche sangue raffermo condito con more e parmigiano-reggiano. Il mio ultimo piatto, ricordo che mi piacque in particolar modo: testa di rinoceronte con contorno di uvetta sultanina e uova sode irrancidite nel fiele di leone. Un sapore un po’ aspro ma delizioso. Quello che mi colpì fu un forte retrogusto metallico con un inconfondibile odore di mandorle amare.
La terza volta non è stato nulla di che…legionario dell’Impero romano…battaglia di Zama…classico “Fuoco amico”, una poderosa dagata alle spalle. La quarta volta fu poco tempo dopo. Ero un martire cristiano, stavolta parte sbagliata dell’Impero…e anche del leone! Poi mi hanno lasciato in pace per molto tempo, a leccarmi le ferite emozionali veleggiando nel nulla assoluto del limbo, tra predicatori in crisi di fede, politici corrotti - che l’immenso limbo ne è pieno - e veline abbandonate da calciatori e attori tardoni. Tutti a brontolare contro qualcuno o qualcosa, un vero inferno!
Di nuovo venni scelto e mi ritrovai sopra una vecchia bagnarola al largo di Hyspaniola, con uno psicopatico come Cristoforo Colombo a capo della ciurma. Non era il primo viaggio nelle Americhe di quel tirchio genovese naturalizzato iberico, forse il terzo o il quarto. Comunque fu il primo nel quale i nativi, dopo aver scambiato oro, argento e pietre preziose con specchietti e perline colorate, si resero conto di essere stati presi per il culo. Io ero il portabandiera della scialuppa: quel rincoglionito che, alla prua di quell’ammasso di legno marcescente, squadra con soddisfazione le terre che va ad incontrare. Con lo sguardo dell’allocco da posta. Dietro, il grande navigatore e i suoi fidi luogotenenti, tra i quali il prezioso fratello Bartolomeo e l’adorato figlio tredicenne Fernando. Un pochino in disparte. Scesi baldanzoso e atterrai sulla bianca rena…i Colombo, invece, sempre sulla scialuppa a guardarsi intorno con circospezione. Come farebbe un vecchio gatto intento a cacare tra le stoppie appena tagliate di un campo di fieno. Un sibilo mi centrò al petto ma non morii, quelle stupide frecce mi perforano appena la spessa pettorina di cuoio, graffiando la pelle.
“Columbus?” Dico voltandomi verso il mare. Quel dannato, con tutti i suoi, sta tornando di gran carriera verso la nave. Mi volto nuovamente e, con uno sguardo incredibilmente stupido, accenno un sorriso imbarazzato al capo tribù che è appena arrivato. Mi aspetto che mi scannino come si fa con un bue, sfilettandomi in quarti, invece quelli mi fissano a loro volta sorridendo. E aspettano che il letale veleno di quelle raganelle di merda faccia affetto. Non è indolore.
Poi ci fu la volta del treno, appunto. Nacqui in quella terra che oggi chiamereste Stati Uniti d’America, intorno alla metà del diciannovesimo secolo. Punte era un piccolo paesino sperduto nel deserto, poche bicocche di legno essiccato dall’aspro sole dell’Arizona arroccate intorno all’unica pompa d’acqua esistente nel raggio di centinata di chilometri. Non sono mai andato a scuola, non sapevo leggere né tantomeno scrivere. Qualche volta, intorno al grande falò che accendevamo nella piazza del minuscolo paesino, qualcuno se ne usciva con la storiella che, a suo dire, una volta aveva avuto modo di possedere un libro. Ma ci credete, un libro! Certo che alcune persone di fantasia ne hanno da vendere. Comunque sia, crebbi nella più pacifica e totale ignoranza. Quando, a poco meno di dieci anni, imparai ad andare a cavallo senza cascare ogni tre secondi con la faccia nel letame, mio padre mi portò con sé. Fare il mandriano era un lavoro faticoso, specie per fondoschiena ma a me piaceva. Tutte quelle mucche secche come stoccafissi, la polvere che ti si infilava dritto nei polmoni, i piatti di fagioli stufati mangiati intorno a un bivacco, seduto sui sassi. Era la vita che faceva per me. Purtroppo mio padre morì dopo qualche anno, una sera d’autunno, scannato da un branco di coyote, quando, allontanatosi dal fuoco per cambiare l’acqua ai fagioli non mi va a pisciare in testa al capobranco? Dovetti tornare a casa, da mia madre che nel frattempo si era invaghita di un bandito di nome Oliver e aveva approfittato della dipartita di mio padre per accoglierlo in casa e tra le lenzuola. Io ero piccolo ma a me parve proprio un comportamento da perfetta bagascia, ma chi sono io per giudicare?
Da lì a trovarmi quindicenne membro della sua banda il passo fu breve. Un bel giorno Oliver decise che avremmo smesso di rapinare le minuscole e rinsecchite banche dei pochi paesi vicini.
“Faremo il salto di qualità,” disse “diventeremo rapinatori di treni!”
È stato così che vidi per la prima volta un treno, e in onor mio, quasi mi cacai addosso per la fifa. Quel bestione correva all’incredibile velocità di trenta chilometri orari, forse addirittura di più e quel coglione del mio patrigno aveva la pretesa che ci saltassimo sopra come locuste impazzite. Va bene, rincorrerlo col cavallo e sparare qualche colpo in aria fu esaltante…ma saltare dalla bestia in corsa e appiccicarsi ai vagoni come un moscone ubriaco, era tutt’altra cosa! In effetti la prima volta calcolai male i tempi e mi stampai contro la paratia di legno, fotocopiando il mio brutto muso contro un finestrino e terrorizzando le signore all’interno dello scompartimento che viaggiavano pensando ai fatti loro. Un male cane! Caddi riverso all’indietro e per poco gli zoccoli del mio cavallo mi schiacciarono la testa.
La seconda volta andò meglio, riuscii ad afferrare la grossa maniglia corrimano, quella d’ottone che serve come aiuto ai passeggeri per salire o scendere. Purtroppo i miei piedi non trovarono alcun appiglio e venni trascinato lungo la prateria per centinaia di metri da quel mostro di metallo, appeso come un salame a stagionare.
La terza volta, parecchi giorni di convalescenza dopo, fu quella buona. Ormai ci avevo preso la mano. Con l’agilità degna di un puma atterrai sul pianerottolo esterno. Pistole alla mano attesi che anche gli altri banditi, meno giovani e agili di me, mi raggiungessero. Poi, molto tempo dopo arrivò anche Oliver. Ansimava ed era tutto acciaccato, perdeva sangue dal naso e aveva un occhio pesto.
“Va bene ragazzi, andiamo”. Disse tirandosi il fazzoletto sul volto.
Entrammo irrompendo nel vagone, sparando alcuni colpi intimidatori in aria, convinti di trovarci di fronte un discreto numero di facoltosi passeggeri che avremmo alleggerito adeguatamente dei loro valori più cari. Invece avevamo sbagliato vagone, evidentemente, perché ci trovammo di fronte una ventina di soldati armati di tutto punto che parevano attenderci.
“Cazzo!” Abbaiò il mio patrigno, girandosi di scatto e correndo fuori urlando come una donnicciola isterica. Lasciando me, John, Carlos e Hugo a vedercela con quei distinti signori in divisa grigia. Volarono un sacco di colpi da quei fucili, uno ad uno i miei compagni di sventura caddero a terra, senza aver avuto modo di rispondere al fuoco. Decisi di seguire le orme di Oliver e tentai una ritirata disperata mentre i proiettili mi fischiavano vicino all’orecchio la loro canzone di morte. Nella foga della fuga (…che schifo di gioco di parole fraintendibile) non vado a incespicare sul mio patrigno che, rannicchiato a terra come un rospo, piange chiedendo pietà? Persi l’equilibrio, sbilanciandomi troppo in fuori e andai a cadere proprio su di un cactus che, grazie al cielo rallentò la mia caduta, ma a costo di un dolore inenarrabile. Rotolando come una ruzzola impazzita schiacciai un crotalo che stava riflettendo su come catturare un grosso topo che si nascondeva sotto un masso poco distante. Mi sa che gli ho rovinato la cena perché, ancora capitombolando centrai proprio quel sasso, spaccandomi la testa e facendo fuggire quel maledetto roditore. Dopo un attimo di smarrimento il serpente si avvicinò e, incacchiato come pochi, morse la mia carcassa senza più vita.
Una volta sono stato anch’io uno importante, ho avuto il mio quarto d’ora di celebrità. Per qualche anno, in Transilvania, fui un vampiro. Uscivo solo di notte, non perché il sole mi accendesse come uno zolfanello come si crede nelle leggende, ma perché le mie prede preferite, le volpi, cacciavano proprio a quell’ora. Non avrete pensato che fossi davvero un vampiro, vero? No, quelli non esistono, ero soltanto un pazzo che pensava di esserlo. L’unica eredità che mi lasciò mia madre, prima di scappare con il maniscalco del paese – mio padre l’aveva già fatto con la locandiera poco prima – furono questi assurdi denti canini enormemente pronunciati. Non servivano a un cazzo, con rispetto parlando, erano scomodi e spaventavano i pochi amici rimasti alla nonna, l’unica persona che mi allevava. Amorevolmente, rinchiudendomi in cantina e facendomi rosicchiare, giorno dopo giorno, mattoni cotti, così da limare quei canini di merda. Niente, erano sempre lì. Poi lei morii di crepacuore e io mi ritrovai improvvisamente solo, sperduto in questo bosco, allontanato da tutti a causa d questa mia diversità. Così, dopo un po’, mi comportai come un vero signore della notte. Dracula, di Bram Stoker, l’avevo già letto e quindi le linee guida già le conoscevo. Dovevo solo stare attento al sole, all’acqua benedetta, ai paletti di frassino nel cuore (e chi non dovrebbe?) e a tutti i dottori che di cognome facevano Van Helsing. Il più mi pareva fatto. Lasciai imbruttire la mia abitazione così che diventasse la catapecchia fatiscente dei miei sogni, poi mi costruii anche una bara in legno di quercia che usai come letto. Come ho già detto uscivo solo di notte per cacciare, mi nutrivo e poi, di giorno mi rintanavo in casa a scrivere idiozie…o leggere idiozie scritte da qualcun altro. Giocavo a scacchi con me stesso e, a volte, nel seminterrato in cui ero stato rinchiuso per anni, intagliavo statue di legno, canticchiando vecchie melodie che la buonanima di mia nonna mi aveva insegnato. Un giorno qualunque un buontempone, coraggioso quanto stupido, ebbe la brillante idea di passare vicino a casa mia proprio mentre intonavo l’acuto finale in falsetto del celeberrimo “Guarda te che sfiga!”, una canzone che mi ero inventato qualche mese prima.
Ebbe il cattivo orecchio d’intendere che io stessi squartando chissà quale virginale pulzella o che mi divertissi a torturare un’intera stanza di educande del convento delle “Figlie Beate del Righello sulle Nocche”. Fatto sta che il tizio ebbe la buona idea di tornare all’alba del mattino dopo con un corteo di altri abitanti del villaggio vicino, armati di torce e con la pessima intenzione di vendicarle.
Il signor Stoker non mi aveva messo in guardia dalle sollevazioni popolari, forse avrei dovuto leggere “Frankenstein” di Mary Shelley. E fu così, che tanto per non saper né leggere né scrivere, me ne rimasi barricato nella mia bicocca, guardando le torce affumicare il sole nascente, dietro le finestre sbarrate.
“Dove sei, mostro maledetto? Vieni fuori, non vogliamo farti niente di male! Urlò il primo cittadino del paese. Il fatto che avesse in mano una falce affilata però non mi rassicurò per niente.
“Vogliamo solo parlare con te”. Ebbe il coraggio di dire un altro che, da come barcollava pareva proprio aver passato l’intera notte a cercare il coraggio dentro una bottiglia di vino. E da come maneggiava quella mannaia pareva davvero cattivo e forte, anche se sbronzo.
“No, non fa per me!” Urlai a quella torma di assatanati.
Il solito esaltato prese una torcia e la fiondò sul macilento tetto dalla casa, seguito dalle urla di apprezzamento degli altri: “Bravo, bravo Brutus il coraggioso!”
“Bravo un cazzo” pensai “quella a cui stai dando fuoco è casa mia, pezzo di rincoglionito”. Le fiamme, si sa, sono monelle ingorde e se c’è di che cibarsi crescono in numero e forza. Quella vecchia casa di legno era, per il fuoco, meglio di uno stronzo fumante per i mosconi; un vero banchetto luculliano.
Non ci volle molto perché tutto andasse a fuoco. Il calore era insopportabile, pensai di cercare una via di fuga attraverso quel muro di umana stupidità. Il dilemma fu amletico: perire tra le fiamme oppure chiedere compassione a un’orda di ubriaconi esaltati col sangue al cervello? Ci pensai su per un po’, finché una fiamma lambì il fondo dei miei calzoni. Eh no, basta fuoco!
“Non mi fate del male!” Ululai piangendo “Sono anch’io un uomo!” Vidi quella marea di volti beceri venirmi incontro con l’espressione di chi, dopo aver fatto tanta strada e la fatica di una alzataccia, qualche mostro deve pure ucciderlo! Mi voltai, guardai le fiamme ardenti chiamarmi pietose: “Vieni da noi, soffrirai meno” parvero sussurrarmi. L’esitazione mi fregò; una robusta mano afferrò la mia piccola testa con tanta forza che quasi la stritolò, mentre il sindaco controllava il filo della sua falce contro il mio collo: essere diversi dagli altri è sempre pericoloso!
Le molte morti testo di Crisocione61