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Chez Mau – Pt.1
Con Giulio e Alfio si erano trovati al bar pasticceria Zucca di via Roma, uno dei bar storici più raffinati del centro di Torino.
Alfio era un vecchio compagno delle medie che lui aveva fatto conoscere a Giulio, poiché era un formidabile percussionista.
Un elemento perfetto per formare il terzetto musicale che Giulio aveva in mente di creare.
L’idea era quella di mettere su una piccola band di “progressive music”.
Si trattava di un recente genere che aveva tra i propri esponenti il gruppo inglese dei Quintessence, i quali creavano una musica che mescolava il “jazz fusion” al rock e alla musica indiana.
Lui e Giulio erano appassionati di tutto quanto atteneva all’India, al suo misticismo e quindi alla sua musica.
In quel periodo adoravano Ravi Shankar col suo sitar, George Harrison nel suo filone indiano e l’italiano Claudio Rocchi, che li aveva incantati col suo primo LP, “Viaggio”, e soprattutto col secondo, “Volo magico n°1”.
La formazione avrebbe previsto Giulio alla chitarra, lui al flauto traverso e serviva un terzo elemento alle percussioni: Alfio cascava a fagiolo, sia perché era dotato di bonghi e tabla su cui scatenare le proprie qualità ritmiche, sia perché possedeva un raga, ovvero una versione ridotta del sitar che produceva un suono identico al fratello maggiore.
Inoltre, Alfio se la cavava a suonarlo, grazie all’ottimo orecchio e alla naturale predisposizione musicale.
La formazione era dunque al completo: Giulio suonava assai bene la chitarra, lui tentava di suonare il flauto (assai meno bene), mentre ad Alfio potevi dare in mano qualsiasi oggetto – dalla lattina vuota di una Coca-Cola a un fustino usato del detersivo – e lui ne traeva un suono con complessi ritmi, capace di ingelosire Marcus “The Magnificent” Malone, il percussionista dei Santana.
Avevano preso un caffè, poi, essendo eccezionalmente in grana, si erano concessi anche un “messicano”, un’eccellente pastarella di creazione esclusiva del locale, apprezzata in tutta la provincia sabauda.
Si trattava di una morbidissima mezza luna di sottile pasta sfoglia, farcita di crema pasticcera e spolverata di zucchero a velo alla vaniglia.
Gustarla provocava una sorta di orgasmo celestiale alle papille gustative; l’unico difetto di quella grazia divina era causare un’incontenibile dipendenza, quasi superiore a quella inferta dal consumo di droghe pesanti.
Ristorati che furono, nel corpo e nell’anima, si erano avviati in direzione del Po.
Avevano appuntamento, alle quattro del pomeriggio, a casa del comune amico Mau, al secolo Maurizio Mastropietro, dove avrebbero trovato anche Enea Baldini, entrambi coetanei e compagni di classe al Liceo Artistico.
Quel pomeriggio avevano concordato di dar vita a una “jam session” musicale, da registrare su cassetta magnetica.
Per l’occasione avevano dietro i rispettivi strumenti: lui si era portato il flauto traverso, il primo strumento che aveva tentato di suonare in vita sua.
Giulio, nella custodia rigida nera, portava l’inseparabile chitarra “Ovation”; Alfio, delle tabla, una coppia di bonghi e un piccolo xilofono in legno nella sacca a tracolla.
Era un pomeriggio luminoso di metà marzo, l’aria primaverile era tiepida e lieve, come i loro pensieri di quel giorno.
Il traffico cittadino scorreva insolitamente rapido e molta gente girava sotto i portici e nelle vie del centro con l’aria allegra che conferiva la tiepida giornata primaverile.
Mau viveva in un enorme alloggio, al quarto piano di un edificio d’epoca situato nei pressi di piazza Carlina.
Era un’abitazione ricavata dall’unione di due alloggi contigui di cinque stanze ciascuno, di fatto occupava l’intero ultimo piano del palazzo.
Trovarsi da lui era una figata, perché aveva una vasta camera da letto che condivideva col fratello più giovane, nella quale si poteva fare tutto il casino che si voleva, senza disturbare i genitori che occupavano l’altra ala della casa.
Giunti al portone carraio del caseggiato, attraversarono un cortile con acciottolato seicentesco, su cui si affacciavano le entrate delle diverse scale del complesso condominiale.
Giunti al piano di destinazione, suonarono al campanello di casa dell’amico, quindi attesero pazientemente una decina di minuti, prima che qualcuno si decidesse ad aprirgli.
Alla porta venne Pelle, il fratello quattordicenne di Mau, mostrando una delle sue migliori arie di scazzo.
Pelle aveva quel nomignolo per via del fiorire incessante di un’acne giovanile particolarmente aggressiva.
Un transitorio problema giovanile che certamente accentuava le asperità e le insofferenze caratteriali della sua verde età, conferendogli un molesto carattere di merda.
Il ragazzo era inoltre di grossa stazza, quindi inevitabilmente anche un po’ lento nel muoversi.
Non che il giovane fosse simile a un bradipo, ma aveva i suoi tempi e li rispettava, forse come unica cosa di cui avesse rispetto al mondo.
Era dotato di un umore ombroso, farcito di caustico cinismo, che in genere non favoriva i suoi rapporti sociali e il proliferare di amicizie.
Aperta la porta, li accolse con uno scorbutico mugugno:
– Siete qui per mio fratello, vero? – constatò con aria greve.
Al loro assenso aggiunse:
– Minchia, quello scemo, tutti i più sfigati che raccatta in giro se li porta qui. Questa casa è diventata un ospizio di barboni, un vero troiaio.
– Cazzo, Pelle, sei sempre affabile come una ragade al buco del culo – disse Giulio. – Non sforzarti a farci strada che rischi ti cali l’ernia e magari ti si sciolgono due grammi di quella ciccia flaccida.
– Fanculo! – rispose lui. – Volete anche che vi porti l’uccello a pisciare o fate da soli?
Quindi, in malo modo, fece un cenno col capo a indicare la strada:
– Quel coglione lo trovate giù in fondo, sempre avanti. Quando sentite la puzza, l’avete trovato.
– Grazie – aggiunse Giulio. – Sei utile come due ganasce appese alle palle. Facci passare e torna a menarti il bagigio.
Lui non subì passivamente:
– Brutti finocchi! Siete delle merde! Le vostre madri la danno ai tossici sifilitici.
Alfio, di origine siciliana, per il quale la mamma era sacra, accusò l’offesa sanguinosa, fece immediatamente per tornare indietro col proposito di gonfiarlo come una zampogna, ma Giulio lo placcò al volo, dicendogli di non perdere tempo; al limite lo avrebbe menato al ritorno.
Quindi proseguirono il cammino.
Attraversarono stanze che si aprivano su altre stanze, come sovente accadeva nelle planimetrie di quelle abitazioni d’epoca.
Ciò che caratterizzava lo spirito della casa era un gusto estroso per gli accessori d’arredo: costituito prevalentemente da oggetti d’origine etnica, che la rendevano più simile a un bazar o al magazzino di un rigattiere.
Questo perché il padre di Mau, per lavoro, viaggiava molto all’estero e amava portarsi a casa ogni sorta di souvenir dei luoghi visitati.
Era un appassionato raccoglitore di cimeli e oggetti d’arte, diceva lui.
Di inservibili minchiate e cianfrusaglie, dicevano i suoi figli.
Gli oggetti provenienti da luoghi in cui non era mai stato, li aveva reperiti la domenica mattina al mercatino del Baloon di Porta Palazzo, oppure da qualche robivecchi.
Vi erano stampe di gusto egizio antico o giapponese, maschere rituali africane, teste impagliate e pelli d’animale selvaggio.
In un salotto era esposta un’intera armatura da samurai, con tre katane disposte artisticamente sulla parete alle spalle, mentre sul pavimento in listoni di legno grezzo vi era una grande pelle di zebra come tappeto.
Compresero di essere giunti alla camera di Mau dal frastuono che ne proveniva: teneva a volume massimo “Fireball” dei Deep Purple sullo stereo, gruppo di cui era ardente cultore.
Bussarono, poi, visto che nessuno se li filava, girarono la maniglia della porta ed entrarono.
La stanza si rivelò piuttosto eccentrica.
Una parete annegava sotto uno strato di locandine e poster rockettari dai colori psichedelici; un’altra aveva mattoni a vista, semicoperta da vecchie affiche musicali e locandine cinematografiche d’epoca.
Quella più ampia presentava un grande murales, sul quale Mau, che era artisticamente assai cazzuto, con perfetto stile preraffaellita aveva dipinto sé stesso in sembianze di dio Pan, con tanto di flauto di canna, calato all’interno di una scena bucolica: un paesaggio silvestre con ninfe discinte e poppute, inseguite da fauni infoiati che cercavano, vieppiù, di ingropparsele.
Nella stanza stagnava un’aria greve: una mescola di incensini al gelsomino, fumo di sigaretta rancido, canne e odori fisiologici.
La situazione igienica generale appariva quanto mai precaria; era evidente che la madre dei due rampolli, con intento educativo, avesse lasciato a loro l’autogestione delle pulizie e del riordino della stanza, cosa che all’evidenza dei fatti non avveniva da mesi, se non da anni.
Un incredibile casino regnava ovunque: polvere e immondizia fungevano da tappeto alla stanza; vi erano mensole stracolme di vecchi libri e cataloghi d’arte, volumi di fumetti; tele oltraggiate dal colore giacevano poggiate al muro; vecchi fustini di detersivo, zeppi di rotoli con bozzetti di studio, spuntavano qua e là come piante ornamentali.
Il guardaroba era costituito da scaffali in legno grezzo, affastellati caoticamente di capi di vestiario, senza apparente distinzione tra sporco e pulito.
Una pila di 33 giri presidiava un impianto stereo con piatto professionale; quattro enormi casse Pioneer CS-570, dagli angoli della stanza, diffondevano la musica assordante.
Raccolta in un angolo, la dotazione strumentale contava una chitarra acustica, un basso elettrico con relativo amplificatore, una coppia di congas, un banjo e un violino cinese.
Il centro della grande stanza era occupato da un vecchio divano e un ampio tavolino basso, su cui stava un capace posacenere colmo di cenere e mozziconi di sigaretta.
C’erano cartoni di pizza vuoti e unti abbandonati qua e là, una vasta collezione di lattine di birra e Coca-Cola consumate; una vecchia scatola in latta di biscotti Plasmon conteneva mazzette di biglietti del tram usati, ottimi come filtrini per gli spini, e confezioni di cartine Rizla+ a foglio lungo.
C’era poi un massiccio letto a castello, deputato a custodire il sonno dei due fratelli.
Mau ed Enea stavano sul pavimento, infilati in due sacchi a pelo a poca distanza l’uno dall’altro.
Ma non erano soli in quei giacigli di fortuna.
Nel primo sacco stava Enea: nudo per la metà che ne emergeva, con la sua faccia larga, piatta e scanzonatamente gioviale; un cordino di pelle raccoglieva in una coda la lunga zazzera bionda.
Al vederli entrare, li degnò di un moderato saluto con la mano, senza distogliersi da ciò in cui era impegnato.
A fargli compagnia c’era una presenza che al momento non era dato di vedere, poiché intanata al fondo del sacco.
Dai mugugni sommessi che emetteva, si deduceva che la presenza fosse femminile, mentre dagli espliciti movimenti, visibili all’esterno, s’intuiva che fosse intenta a un lavoro che interessava la zona coperta del giovane vichingo romagnolo.
Enea si abbandonava a quel lavorio, con aria assorta e beota: teneva all’angolo della bocca una mezza cicca fatta a mano, al momento spenta; l’occhio ceruleo e appannato si perdeva in un punto lontano del cielo al di là del vetro, torbido di lordume, della finestra.
Mau, molto più attivo, stava invece pompando con grande impegno una tipa all’interno del proprio sacco.
Anche di lei non era dato di vedere il volto, poiché la testa era interamente occultata dal cappuccio del sacco a pelo.
Neppure lui si fermò. Voltò solo la testa per salutarli e dire:
– Scusate un attimo. Mi sbrigo subito. Accomodatevi, in frigo c’è la birra, se vi va rollatevi uno spino. Sul tavolo, sotto il casino, trovate quello che serve. Fate come foste a casa vostra.
Ringraziarono e, senza altri formalismi, scaricarono gli strumenti e sedettero sul vecchio divano davanti al tavolino.
Lui, sul bracciolo al suo lato, trovò delle mutandine femminili: le prese per spostarle altrove; appartenevano certamente alla ragazza che stava copulando con Mau.
Nel farlo gli venne, distrattamente, di annusarle.
Si pentì d’averlo fatto! Emanavano, infatti, un fetore pestilenziale.
Pensò, sconcertato, che quella sicuramente si teneva un topo morto fra le cosce.
Si domandò chi mai fosse la silfide sotto il loro amico, ma non gli sembrò comunque opportuno, in quel momento, avvicinarsi alla coppia per soddisfare questa curiosità.
Per la verità, non è che la fanciulla sembrasse partecipare granché alla cosa: dal sacco a pelo giungeva solo qualche raro, debole gemito, che a udirlo si sarebbe detto più di fastidio che di piacere.
Si disinteressò della donzella per concentrarsi sullo spino che Alfio aveva provveduto a confezionare, dopo aver trovato, sotto la montagna di rifiuti sul tavolino, la stagnola col tocco di “marocco”.
Lo accesero e in silenzio iniziarono a farlo girare tra loro.
Giulio tirò fuori la sua Ovation dalla custodia e iniziò ad accordarla e a tirar giù qualche accordo.
Alfio accennò un ritmo lento sulle tabla, mentre lui, stappata una lattina di birra dal frigo, segnava col piede il ritmo contro la gamba del tavolino.
Più tardi, quando il fumo avrebbe carburato a dovere, si sarebbe unito agli altri in quell’ameno concerto.
Questo perché riusciva a combinare qualcosa col flauto solo quando era fatto.
Il fumo liberava il suo potenziale di musicista, riusciva a fargli sentire il ritmo e a farlo penetrare nella melodia.
Trascorse una ventina di minuti in questi preliminari, poi Enea strabuzzò gli occhi e gonfiò le guance come se gli fosse andata di traverso la cicca che aveva in bocca.
Lo udirono produrre un mugolio lungo e inquietante: infine, tirò la testa all’indietro e s’irrigidì in una fissità muta, rimase con gli occhi sbarrati a osservare il soffitto come se non lo vedesse.
Pensarono gli fosse presa una sincope, ma poi convennero che invece era solo venuto.
Anche loro, per riflesso, alzarono gli occhi al soffitto a cercare cosa ci fosse d’interessante da guardare: lo fecero con quella convinzione innaturale che ti viene solo se sei molto fatto, poiché in effetti da vedere non c’era un’emerita mazza.
Qualche attimo dopo, dal sacco emerse, lentamente, una voluminosa testa di capelli crespi rosso aragosta, che si adagiò sul petto d’Enea.
Era la chioma inconfondibile di Unghia.
“Puttana Eva!” realizzò lui.
Se quella era Unghia, allora l’altra sotto Mau era Cavalla!
Questo gli chiarì subito la ragione dell’olezzo annusato nelle mutandine di prima.
Unghia e Cavalla erano una coppia inseparabile di amiche all’interno del loro Liceo: dove stava la prima, c’era immancabilmente anche la seconda; parevano due gemelle omozigote, benché non si somigliassero fisicamente in nulla.
Unghia doveva il suo nomignolo alle lunghe e curatissime unghie che portava; l’altra, assai probabilmente, alla lunghezza delle gambe di cui madre natura l’aveva generosamente dotata, appellativo mediato dal concetto popolaresco di “cavallona”.
Entrambe erano, in sostanza, due gnocche tutt’altro che disprezzabili, ma ostentavano un atteggiamento artefatto e appariscente.
Portavano sempre un trucco pesante, carico al limite del puttanesco; in certi periodi le vedevi girare con le chiome colorate di rosa o di blu elettrico; l’abbigliamento era costituito da minigonne microscopiche, su alti stivali “cuissard” con tacchi vertiginosi e camicette che lasciavano in vista ampie porzioni di poppe.
Erano, in effetti, qualcosa di simile a delle “groupie”: quelle fan sfegatate che, negli anni Sessanta, seguivano le rockstar durante le loro tournée, con la variante che loro, anche senza musica, presenziavano ovunque vi fossero maschi “passabili” della scuola.
Avevano il loro ufficio personale nei bagni femminili dell’istituto: le trovavi più spesso lì che nelle rispettive classi.
Passavano intere mattinate a fumare, rifarsi il trucco, confrontarsi sugli ultimi acquisti fatti da “Fulgenzi” o coordinarsi sulle strategie di cattura dei maschi di turno presi di mira.
Ritenendosi in qualche modo divine, mostravano un piglio di altera sufficienza verso il resto delle donne, le quali le ricambiavano con una cordiale antipatia, mentre molti uomini se ne tenevano a distanza per quell’aria equivoca, che procurava diffidenza se non timore.
Di Cavalla si diceva che, tanto abbondasse di profumi costosi e seduttivi, quanto trascurasse la sua igiene corporea: quelle raffinate fragranze non compensavano la carenza di sapone per doccia, deodoranti ascellari o del regolare cambio della biancheria intima.
Correva voce che chi fosse giunto a sfilargli le mutandine si sarebbe poi arrestato per l’impraticabilità della zona: l’olezzo della gnocca di Cavalla era tale da dissuadere anche i più ardimentosi e solidi di stomaco dal proseguire nell’intento erotico.
Mau stesso, in passato, narrava di un ammiccamento avuto con lei, risoltosi in un nulla di fatto per quel grave problema.
L’evidenza del momento, a quanto si vedeva, smentiva quel racconto o forse il loro amico aveva sviluppato una superiore resistenza olfattiva.
Di Unghia si diceva un gran bene riguardo all’arte di fare degli ottimi ricami orali, benché quegli artigli multicolori di cui era dotata potessero divenire pericolosi nei momenti clou del sesso fatto con lei.
(Continua)