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L’ultima plaga
Tu guardi a me
come a un tenue virgulto
un morbido fiore
di languida vita acceso,
ma io non son che il greve fusto
l’arido tronco, arso, distorto
dal fulmine combusto.
Tu la parvenza scruti, il simulacro
di chi al tuo sguardo si è mostrato un giorno,
ma erronea e fallace è questa immago:
stento e sfibrato ormai è l’esser mio,
le stanche membra non reggon più i ginocchi
pesti ed esangui sono i cigli e gli occhi.
Aspro è il momento, affanno e umiliazione
vengono a me che vago a vuoto e invano
fra quest’aride lande a rimembrare
l’antica traccia che persevera veemente
nell’animo, nel cuore e nella mente.
Indi riveggo le perfette forme,
l’esemplar figura, l’effigie inimitabile
di cui tu, splendidamente cinta,
a me apparisti in quel fatale dì.
Vano fantasma o indizio di esistenza,
spirto di fuoco o essere reale,
concreta foggia o eterea sensazione:
dubbio perenne che guerreggia dentro.
La tua voce - seppur fioca - odo ancora,
il tuo appello nel mio petto ancor risuona,
ma coglierlo non so, o più non posso:
una nebbia s’oppone, un denso manto
di bruma e di caligine che vieta
allo sguardo interior l’ultima plaga
l’orizzonte estremo dell’essenza
e la speme a me nega, anche la speme.