New York Madrid Roma Atene

scritto da flowerpanofsky
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Testo: New York Madrid Roma Atene
di flowerpanofsky

Sul volo da New York a Madrid, mi siedo accanto a una ragazza dai capelli scuri e gli occhi che sembrano rubati all’Egeo. Si chiama Eleni, è greca, torna a casa dopo sei mesi a Manhattan. Parliamo di tutto: arte, mare, sogni e città invisibili. Il volo passa come un battito di ciglia.

All’atterraggio, ci guardiamo sapendo che ognuno ha una coincidenza da prendere: lei verso Atene, io verso Roma. Ci sorridiamo, ci scambiamo un bacio sulla guancia, e poi ci perdiamo tra le porte d’imbarco per sempre.

Fino a quel momento, la mia vita era trascorsa tra Roma e una piccola città del sud, dove il tempo scorre lento e i volti sono sempre gli stessi. Roma mi dava il ritmo, il lavoro, le sfide. Il sud, il silenzio, gli odori familiari, il rifugio. Non avevo mai sentito davvero il bisogno di altro.

Ero stato a Manhattan per una settimana, ospite di una mia vecchia amica, Valentina, che lavora nel mondo scintillante degli eventi di alto profilo. Tra una cena di gala e una sfilata in terrazza a SoHo, mi aveva mostrato una New York frenetica e affascinante, ma anche stancante.

Seduto da Starbucks, con il profumo del caffè tostato che si mescola al sottofondo jazz, tengo stretto il bicchiere caldo tra le mani mentre fuori, oltre il vetro appannato, New York scorre.

Ogni volto è un frammento di un racconto che non conosco: giacche eleganti, scarpe da ginnastica, telefoni incollati all’orecchio, passi decisi. Donne e uomini che corrono verso qualcosa — una riunione, un sogno, o forse solo il prossimo semaforo.

Li guardo sfilare come in un film senza pausa, ognuno con la sua fretta, il suo stile, la sua battaglia quotidiana. E per un attimo, sorseggiando il mio caffè, mi sento fuori dal tempo. Fermo. Invisibile. Ma parte, anche solo per un respiro, di quel vortice infinito chiamato New York.

Avevo conosciuto Valentina anni prima, a Roma, durante una festa al Gianicolo. Era una sera d’estate, la città sotto di noi brillava come un presepe sfocato e l’aria profumava di vino e gioventù. Valentina rideva forte, con quegli occhi che sembravano voler mordere il mondo. Ci eravamo parlati poco, ma abbastanza da capire che dietro quella leggerezza c’era un’anima che aveva già camminato molto.

Negli anni seguenti, ci eravamo incrociati a tratti, mai abbastanza da diventare amici intimi, ma sempre abbastanza da tenerci d’occhio da lontano. Sapevo delle sue difficoltà: un padre assente, una madre troppo presente, relazioni complicate e una rabbia di fondo che non trovava pace. Valentina era una di quelle persone in perenne fuga da qualcosa, anche quando sembrava ferma.

Poi un giorno mi scrisse da New York. Era cambiata. Organizzava eventi, dirigeva team, camminava sui tacchi tra grattacieli come se ci fosse nata. Finalmente aveva trovato una città che correva al suo stesso ritmo. In quel caos ordinato, Valentina aveva messo radici.

Durante quella settimana a Manhattan, l’ho vista nella sua versione migliore: sicura, lucida, finalmente libera. Mi parlava di clienti esigenti e serate di gala come se stesse raccontando battaglie vinte. Ma c’era anche dolcezza, in certi silenzi — come se, tra una corsa e l’altra, si fosse perdonata un po’.

Ed è stato lì, immerso nella sua nuova realtà, che una mattina mi sono ritrovato da Starbucks, a osservare quel fiume umano scorrere oltre il vetro. E a chiedermi se anche io, da qualche parte nel mondo, avevo ancora un posto da trovare.

Durante quella settimana in giro per New York, non riuscivo a smettere di immaginarmela in altre epoche. La guardavo attraverso gli occhi del presente, ma la mente correva altrove.

La vedevo ai tempi di Andy Warhol, negli anni Settanta, quando la città era un’esplosione di arte, eccessi e creatività senza freni. Valentina avrebbe camminato tra la Factory e il Chelsea Hotel con la stessa energia con cui ora attraversava SoHo, magari vestita di lustrini e sigaretta in mano, chiacchierando di arte e rivoluzione con personaggi troppo eccentrici per essere veri. Lì, in quel caos geniale, l’avrei vista a suo agio — una figura magnetica tra le ombre luminose della New York più sfrenata.

Oppure pensavo a come l’aveva vissuta uno come Limonov, con lo sguardo da outsider, la rabbia cucita dentro e la voglia di sfidare tutto. Anche in quel contesto più ruvido e spigoloso, Valentina ci sarebbe stata bene. Avrebbe lottato, scritto, urlato al mondo il suo posto, con quella sua fame di significato che non l’ha mai abbandonata.

E mentre camminavamo insieme tra le avenue, io la seguivo in silenzio, lasciando che la città e le sue mille versioni scorressero tra i palazzi. C’era qualcosa di eterno in New York — e qualcosa di finalmente stabile in lei.
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