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Israele e Gaza fra terrore e poesia
Non eravamo preparati a una tale violenza. Ho visto – e cerco di dimenticare – il filmato di un uomo che spacca la testa di un altro uomo con una pala e poi tenta di decapitarlo al grido di “Allah Akbar”. Altri terribili video di morti ammazzati o di civili presi in ostaggio sono girati un po’ ovunque nell'ultima settimana. In un primo momento ho cercato di non vederli, di spegnere il computer. Avrei tanto voluto nascondermi.
Poi – come sempre – mi sono rifugiato nei libri, cercando una qualche spiegazione a quegli orrori che fosse più di una semplice condanna (pure necessaria). Ho riletto alcuni brani di Diario di ordinaria tristezza, di Mahmud Darwish, uscito nel 1973. C’è un capitolo intitolato Silenzio per Gaza che è un’ode al terrorismo contro l’occupante israeliano. Darwish scrive: “I nemici possono avere la meglio su Gaza. (Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola). / Possono tagliarle tutti gli alberi. / Possono spezzarle le ossa. / Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. / Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue. / Ma lei: / non ripeterà le bugie. / Non dirà sì agli invasori. / Continuerà a farsi esplodere. / Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. / Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere."
Cosa dire di fronte a una pagina così sconvolgente? Mahmud Darwish aveva sofferto in prima persona, era un palestinese. Possibile che il terrore sia anch’esso una forma di resistenza? L’odio feroce per l’oppressore può avere una dignità morale? Ho guardato di nuovo i filmati degli scempi di Hamas e mi è venuta la nausea. No, ho pensato con fermezza, assolutamente no: anche e soprattutto nella lotta al male – di qualunque male – devono esserci delle barriere morali e umane che non devono essere valicate. Farsi esplodere non è la risposta. Trucidare civili non può essere considerato un atto di resistenza.
Ho cercato altri libri. Forse, mi sono detto, il problema sta a monte, nella creazione dello Stato di Israele e dunque nella sua stessa esistenza. C’è un brano di Marc-Édouard Nabe, feroce antisionista francese, intitolato Tutta la storia di Israele su una sola pagina; Nabe scrive che tutto comincia come in un romanzo di Kafka: un giorno un tipo si presenta a casa tua e ti dice che devi andartene, dando la tua casa ad altri, e questa sarebbe la creazione dello Stato di Israele. Mi è venuto in mente un passo di Di chi è la colpa, il romanzo di Alessandro Piperno, che fa così: “Se gli ebrei ossessionati dall’essere ebrei non si fossero messi in testa di colonizzare una terra su cui (parliamoci chiaro) non potevano accampare alcun serio diritto legale, e se non l’avessero occupata con la tenacia che li distingueva, adesso Francesca non sarebbe qui a farneticare…” – naturalmente in questo caso è un personaggio (il narratore del libro) a parlare e non Piperno, tuttavia la frase rimane. Israele non avrebbe dunque il diritto di esistere? Questa è la principale convinzione di molti seguaci di Hamas.
Noi invece crediamo che Israele – che è una democrazia molto fragile ma è una democrazia – abbia il diritto e il dovere storico tanto di esistere quanto di difendersi, o che comunque (per parlarci chiaro, come direbbe il personaggio di Piperno) sono trascorsi troppi anni dalla sua fondazione per rimetterne oggi in causa l’esistenza. I crimini di Israele nei confronti di Gaza sono imperdonabili, certo, esattamente come gli orrori di Hamas del sette ottobre. Nel momento in cui scrivo Israele si vendica (Netanyahu ha parlato esplicitamente di “potente vendetta”) di Hamas: e a Gaza ci sono migliaia di altri morti innocenti. Wis?awa Szymborska scriveva, nella poesia L’odio: "Guardate com’è sempre efficiente, / come si mantiene in forma, / nel nostro secolo l'odio. / Con quanta facilità supera gli ostacoli. / Come gli è facile avventarsi, agguantare." Riguardiamo i filmati e le fotografie degli attacchi di sabato scorso e della Gaza devastata di questi giorni. Tutto porta a pensare che non ci sia soluzione.
Edoardo Pisani
(Questo breve pezzo sarebbe potuto uscire su uno dei blog/riviste letterari su cui sono solito scrivere, ma necessitavo di una pubblicazione rapida e quindi ho deciso di metterlo qui, in attesa di tempi migliori. Mi rifaccio, come diceva Bolaño, alla lapide di Borges: "And ne forhtedon na").