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Non so perché ti penso ancora,
tra uno specchio e un respiro,
mentre cerco di rifiorire, di essere bella, viva, intera.
Mi trucco la pelle, mi trucco l’anima,
mi sforzo di brillare, ma sotto la luce, tremo.
Tu sei l’ombra che non se ne va,
il battito che ritorna tra due silenzi,
la nota stonata che rovina la melodia,
ma che il cuore, ostinato, continua a cercare.
Ti ho dato il meglio, e lo sai.
Ho aperto porte, finestre, vene,
e tu, distratto, hai guardato altrove,
lasciando entrare il freddo, ma non te stesso.
Io non ho colpe, eppure mi resta la pena,
quella pulita, quella che non ha nome.
Tu dovresti bruciare di rimorsi,
ma è me che il fuoco consuma.
A volte mi sorprendo a immaginarti,
il tuo sguardo che si illumina tardi,
un "mi dispiace" detto piano,
un ritorno che sa di redenzione.
E subito mi vergogno del pensiero,
ma non riesco a cacciarlo via.
Perché non sei tu che mi manchi davvero,
è la possibilità di essere capita,
è il sogno di non aver sprecato la verità che ti ho offerto.
Mi manca il mondo che avevo immaginato con te,
non la realtà che mi hai lasciato addosso.
Ti penso, e non ti voglio.
Ti sogno, e poi mi desto in colpa.
C’è in me una nostalgia che non ha oggetto,
solo forma, la tua.
Eppure so che passerà, come tutto ciò che arde.
Che la vita si riprende i suoi colori
quando smetti di chiedere al buio di spiegarsi.
Ma stanotte, tra le ciglia e il cuore,
sei ancora un tremito dolce, una ferita gentile,
che non sanguina più, ma ancora canta.