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All’inizio dei secoli
l’asino portava tutto:
pietre, legna, civiltà intere.
Gli uomini portavano
solo la presunzione.
E già allora il carico non era equo.
Nel Medioevo gli appiopparono
la virtù dell’umiltà.
Comodo:
lui lavorava,
loro facevano sermoni
sulla fatica altrui.
La teologia come sport da salotto.
Il Rinascimento inventò il genio,
ma non la gratitudine.
Nessuno dipinse l’asino:
non si immortala ciò che
ricorda quanto poco brilliamo
senza un dorso su cui salire.
Ottocento, era industriale:
l’umanità sogna il futuro,
l’asino continua a trascinarlo,
mentre chi gli sta sopra
non sopporta nemmeno
di trascinare le proprie idee
fino a sera.
Novecento: lo sostituiscono
coi motori, finalmente.
Lui si scansa e osserva:
ci mettono pochi decenni
a inquinare il pianeta
che lui aveva calpestato
così educatamente per millenni.
Oggi l’asino compare nei presepi
accanto a un bue
che non ha fatto nulla,
e nei racconti per bambini
come simbolo di modestia.
Lui tace, per non ridere.
Sa benissimo che l’unica specie
che merita il nome di “somara”
è quella che ancora lo usa
come insulto.