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Era luglio inoltrato, nel paesino di montagna dove Maddalena e la sua famiglia passavano le vacanze estive ogni anno.
Si era appena sciacquata il viso, con un gesto secco si passò l’asciugamano sugli occhi nel tentativo di togliersi il nero della matita, ma ottenne il risultato contrario, come ogni volta che tentava quell’approccio. Guardandosi allo specchio, fece una smorfia vedendo il nero che aveva invaso tutto il contorno degli occhi, e come se non bastasse, aveva macchiato l’asciugamano di cotone bianco. Era troppo stanca per sistemare quel pastrocchio, si spalmò un po’ di crema per smacchiare almeno in parte le palpebre e la pelle delicata sotto l’occhio, e uscì dal bagno spegnendo la luce. Era pronta per andare a dormire, l’orologio del cellulare segnava le 2:45 quando lo schermo si illuminò. Un messaggio di Franco. Una foto della porta di casa, con sotto scritto: Entro solo?
Era un chiaro invito a raggiungerlo, lei rifletté per qualche secondo: era stanca, era tardi, ma c’era qualcosa che la spingeva a rimettersi le scarpe e andare. Seguì quella spinta all’azione, e in pochi minuti fu fuori. Con la torcia del cellulare salì le scale cercando di non fare rumore, di non calpestare le foglie ed evitare quello scricchiolio che avrebbe svegliato i genitori, che dormivano nella casa di fianco. Non prese la macchina per paura del rumore del motore acceso in piena notte, e si incamminò a piedi per la stradina di campagna, la luna illuminava la strada con quella sua luce pallida e argentata. Superata una curva della strada, intravide una sagoma umana ferma sotto a un albero. Doveva essere lui, ma senza occhiali non ne poté essere certa finché non gli arrivò vicino, con la faccia ingrugnata dalla diffidenza e dalla paura che fosse qualcun altro.
Passarono quella notte a stringersi nel letto, grondanti di sudore, si stringevano e si spingevano un dentro l’altra con violenza, cercando disperatamente un po’ di piacere, quel piacere effimero che un attimo dopo è già scomparso, e lascia solo un senso di solitudine vagamente accentuato dal sudore che si raffredda sui corpi e li lascia sporchi e appiccicosi.
Franco era fidanzato, quella sera erano stati tutti a cena da Maddalena, compresa la sua fidanzata. Il paese è piccolo, i vicini parlano, e lei sapeva che se ne sarebbe dovuta andare nascosta dal buio, prima dell’alba. Si rivestì e uscì, dicendo a Franco che non c’era bisogno che la accompagnasse, ma non lo faceva per lui, lo faceva per se stessa: un senso di solitudine e di odio per quella persona era tutto quello che le era rimasto dall’amplesso amoroso. Lui l’indomani avrebbe stretto tra le braccia un altro corpo caldo, conosciuto, lei invece era di nuovo sola.
Maddalena aveva sempre avuto i capelli lunghi, castani tendenti al rosso, che amava. Erano la parte del suo corpo che più la faceva sentire desiderabile. Alla fine dell’agosto dell’anno passato, il suo ragazzo aveva deciso di lasciarla, dopo quattro anni insieme. Lei sentiva che sarebbe successo, ma quando successe era ugualmente impreparata. Il suo grande amore, quell’amore che le aveva illuminato la vita, che l’aveva fatta sentire finalmente una donna, era finito, e lei ancora non lo accettava. Quasi un anno era passato, ma sentiva ancora quel nodo alla gola, che non andava giù e non andava su.
I suoi rapporti con gli uomini da quel lontano agosto erano stati vari, ma mai veramente soddisfacenti. Stringeva un altro uomo tra le gambe, ma lo sentiva estraneo, freddo, provava un piacere distaccato, come se stesse giocando con un oggetto meccanico, con un corpo senza volto. Non sentiva il guizzo, il trasporto, terminata l’eccitazione del sesso sentiva il copro dell’altro accanto al suo, e le si stringeva tutto dentro, come se accanto a lei ci fosse una carcassa, un corpo freddo e senza vita, che la repelleva, e lei scappava disgustata da quell’immagine macabra. Tornava a casa, si lavava accuratamente ogni centimetro del corpo con il sapone, e poi si sentiva fredda a sua volta, sola. Incompleta.
Aveva 25 anni, una famiglia che l’aveva sempre sostenuta, e l’obiettivo di diventare qualcuno. Se gli si chiedeva chi, non sapeva rispondere, ma era sempre stata convinta, sin da piccola, che con il tempo e l’esperienza sarebbe riuscita a fare qualcosa per cui il mondo l’avrebbe dovuta ricordare. Da piccola scriveva storie, storie di animali, di persone, di sentimenti. Poi, quando fu cresciuta abbastanza da avere le sue storie personali, iniziò a tenere un diario nel quale annotava le sue avventure, i ragazzi che le piacevano e quelli che la corteggiavano non ricambiati. Si accorse che più il sentimento era forte più le sue pagine prendevano vita, gonfie di parole sofferenti, di passioni scatenate. Quell'anno aveva scritto così tante pagine che ne sarebbe potuto uscir fuori un romanzo.
Marina aveva trascorso l'estate sull'isola, insieme alla famiglia e ai fratellini piccoli, occupandosi delle faccende e accompagnando i fratelli al mare a giocare tra gli scogli. Raccoglievano paguri, conchiglie e andavano a caccia di granchi che ogni volta Marina li costringeva a liberare prima di tornare a casa. Era un'estate come tutte le altre, un momento sempre uguale lontano dal tempo e dalla vita reale, o forse era proprio quella la vita reale e tutto il resto solo un sogno turbolento? Spesso Marina si poneva questa domanda. Era sull'isola che si sentiva veramente a casa, che si sentiva al sicuro. Lontano da tutto, sola con il mare, i granchi e i suoi fratellini ancora piccoli. Anche quell'anno era arrivato il momento di tornare, prendere il traghetto, caricare le borse in macchina e salutare il mare e i delfini che facevano a gara con la prua della nave. Il cellulare ricominciò a funzionare, collegandosi alla rete del traghetto, e Marina fu inondata dai trilli dei messaggi che non le erano arrivati per tutto quel tempo e che ora le si rovesciavano addosso come una valanga. Venne a sapere che Chiara era stata ricoverata per un’appendicite, e che l’avrebbero operata. Quella notte non riuscì a prendere sonno, tormentata dal dubbio. Avrebbe dovuto semplicemente scriverle un messaggio, forse chiamarla? Oppure era giusto che andasse in ospedale a trovarla? Dentro di lei sentiva di volerla vedere, confortare, si sentiva in colpa per il suo distacco e in difetto in questa situazione di emergenza. Era un’appendicite certo, nulla di tanto grave, eppure non riusciva a tranquillizzarsi, non tanto per l’operazione in sé ma per il fatto di non essere subito corsa a sostenere l’amica. In fondo in questi casi è doveroso un cessare il fuoco, “gettate le armi” …
Le sembrava di essere su un’altalena, un momento sentiva un forte desiderio di riabbracciare l’amica, e l’attimo dopo provava amarezza, fastidio per quella persona che aveva rovinato la loro bella amicizia. Era come se tutto d’un tratto questo forte slancio verso l’altra venisse frenato, come se la sua mente le impedisse di arrendersi, di dimenticare e tornare sui suoi passi. Aveva paura di rivederla lì, sdraiata sul lettino con il camice ospedaliero, e non riuscire a trattenersi, sarebbe corsa tra le sue braccia e avrebbe pianto e le avrebbe chiesto scusa, mi sei mancata, dimentichiamo tutta questa storia, non pensiamoci più.
Ma non era ancora tempo, sentiva questo avvenimento come se fosse quasi un obbligo di riconciliazione, ma se non fosse successo, se non fosse stata ricoverata, molto tempo sarebbe ancora dovuto passare, così lei pensava dentro di sé, o forse non sarebbe bastato neanche quello, forse non sarebbero mai tornate come erano prima. E dentro di sé sentiva di desiderare che lo scontro continuasse, non voleva una riappacificazione, voleva la guerra. Tentava di psicanalizzarsi, di chiedersi perché non volesse lasciarsi tutto alle spalle, aveva bisogno di un periodo di distacco? Oppure veramente non la voleva più? Non voleva più sentire la sua voce al telefono che si lamentava, il suo atteggiamento da vittima. Poi c’erano però tutte le caratteristiche belle di Chiara, quelle che l’avevano legata a lei per tutto questo tempo, il suo essere premurosa, la sua simpatia e la voglia di ridere, di sorridere alla vita.
Le passavano per la mente ricordi belli, la serenità che provava quando stava con lei, il senso di appartenenza, la sicurezza che le dava la sua presenza, sentiva di avere in lei una spalla, un luogo sicuro. Forse era proprio per questo che il suo tradimento le aveva fatto tanto male. Forse proprio non se lo aspettava. Ricordò il giorno in cui Chiara le disse la verità. E sentì di nuovo, in quel momento come allora, quel fulmine che le si abbatteva sul petto, come una spada infuocata, calda e fredda allo stesso tempo, fuoco e gelo, e l’aveva trafitta dal petto fino in fondo, fino al cuore. Un cuore ignaro, senza corazze né protezioni, vulnerabile in quel momento di pace apparente. E le tornarono in mente altri ricordi di quella serata, lei che sorrideva forzatamente, quanta fatica le costava quel sorriso, era sfinita, voleva allontanarsi, tornare a casa, trovarsi sola per poter rilassare i muscoli del viso e leccare in silenzio quella brutta ferita che si infettava con una rapidità spaventosa.
Invece rimaneva lì, a dirle che era contenta, che non si doveva sentire in colpa, che aveva fatto bene, che al cuor non si comanda, che lei non ci era rimasta male, anzi era contenta, davvero contenta, te lo meriti Chiara, dopo tutto quello che hai passato, alla fine io lui neanche lo conoscevo, dicevo così tanto per dire, ma figurati non mi interessa, non lo conosco neanche.
E allora Chiara le aveva raccontato tutto. Tutto. Perché aveva creduto alle sue parole, aveva veramente creduto che non le importasse, che era contenta. Ma non era vero, santo cielo, come poteva essere vero?
Tutto si era già rimesso in moto con gli scossoni e le turbolenze che aveva lasciato prima di partire, e il suo viaggio sull'isola sembrava già un sogno lontano.
Diana amava il giorno dopo aver fatto l’amore. Rimaneva nel letto per ore a ripensare a quei momenti, poi i suoi pensieri vagavano, immaginava storie proiettate nel futuro, e poi ritornava sul filo dei pensieri, a cercare di ricostruire ogni instante del tempo vissuto. Cercava di ricordare i suoi occhi, i movimenti di quel corpo a contatto con il suo, gli sguardi, e ogni volta che lui sorrideva lei si chiedeva: perché sorride?
Quell'estate si erano visti poco, perché lei era partita con la sua famiglia. Era stata in montagna, tra le dolomiti, montagne eleganti, delicate e immensamente possenti allo stesso tempo. Nella cameretta davanti alle montagne Diana passava il tempo a immaginare come sarebbe stato rivederlo al suo ritorno, e riorganizzava nella mente i ricordi dei momenti passati insieme.
Le aveva anche fatto un regalo per il compleanno. Lo immaginava nel negozio di intimo femminile, che si faceva mostrare dalla commessa questo o quel capo, e intanto pensava al suo corpo, a quale sarebbe stato più adatto al suo seno, alla sua corporatura minuta. Le veniva voglia di essere ancora insieme a lui, vicini nel letto, si chiedeva se lui l’amava, nonostante a parole le avesse sempre detto di no, lei si interrogava sui suoi gesti, la dolcezza con cui le aveva accarezzato tutto il corpo, il modo di guardarla, quei sorrisi, le aveva baciato la bocca, il naso, gli occhi, si era stretto a lei e la aveva spinta a stringersi a lui. Era possibile che non la amasse? Come faceva ad essere così accogliente, perché sorrideva, se poi non pensava più a lei il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Poi rifletteva su loro due, sarebbero mai potuti andare bene? A cena fuori, o durante un viaggio insieme, si sarebbero capiti? Sarebbero riusciti a parlare la stessa lingua, o non avrebbero parlato proprio? Lei voleva veramente un uomo come lui? Forse no e forse invece sì. Non si sarebbe annoiata? Eppure, ci pensava. Quando parlava di lui sorrideva, anche se le sue amiche la guardavano male. Non poteva fare altro che ripensare all'ultima volta che si erano incontrati, e godere di quei ricordi, e chiedersi se sarebbe mai cambiato qualcosa.
Passavano i giorni e lei pensava di esserne forse un po’ innamorata, ma non troppo. Poi capì che in fin dei conti non lo amava affatto, perché ci volle poco a dimenticarlo quando, appena tornata dal viaggio in montagna, lui le disse che aveva incontrato un’altra.
Era settembre ormai, le ragazze erano tornate tutte a Roma. Diana fu la prima a farsi sentire, desiderosa di raccontare alle altre come era stata scaricata, ma anche di ammettere ad alta voce che la cosa non l'aveva disturbata più di tanto. Diana, Maddalena e Marina si incontrarono al solito bar, all'angolo con il mercato, sul tavolino sotto la veranda, e ordinarono come al solito due caffè e un cappuccino di soia, più due cornetti e una brioche. Una volta che tutto fu pronto e le tazze ben disposte sul tavolino, le ragazze si lanciarono sguardi curiosi e interrogativi, pronte a condividere e ad ascoltare i loro racconti d'estate.