Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Oggi piove.
Pioveva da ieri.
Il cielo ha quel colore stanco del piombo, come se fosse rimasto sveglio tutta la notte.
Mi sono alzata dal letto e ho aperto le persiane, come si scosta un velo pesante: volevo lasciare entrare l’aria, farla scivolare dentro i polmoni come una preghiera che non chiede niente.
L’unica cosa viva era il profumo dell’alba: umido e freddo.
Questa mattina, andando al lavoro, ho visto un gatto steso sull’asfalto.
Non sembrava morto — lo era.
Accasciato di lato, il fianco squarciato in due. Una ferita larga, netta e rossa come carne viva. Come una verità che non si può più ignorare. Schiacciato da qualcosa che non si è neanche fermato a guardare.
In mezzo al viavai impaziente delle macchine, una signora dallo sguardo addolorato, con un’espressione che non chiede niente a nessuno, ha aperto la sua portiera.
Con i capelli, il cappotto e le scarpe ormai bagnate — tra il traffico, i clacson e le frenate brusche — si è fermata.
Ha preso un panno: limpido, bianco, in cotone e si è piegata sul suo corpicino per tirarlo via.
Voleva salvare il gatto dalla sua sofferenza, nel tentativo di dare dignità al suo dolore. Lenta, delicata, come se quel gesto potesse cancellare il rumore dello schianto.
Il sangue, però, aveva già macchiato tutto.
Mi chiedo ancora cosa gli sia successo. Ma forse non importa.
Poi, più tardi, ho scoperto di aver bocciato un esame.
Bastavano dodici risposte corrette. Io ne ho date undici.
Una. Una sola domanda mi ha lasciata fuori. L’ho presa con leggerezza, ci ho riso sopra con un’amica, scrivendole con decisione che può capitare a chiunque.
Dentro di me, è salita una vergogna silenziosa ricamare i fili di un velo invisibile, così lieve da sembrare nulla, eppure così pesante da sentirmelo sulle ossa.
Mi sono chiesta se sia davvero questo il percorso giusto per me, o solo un tentativo maldestro di sembrare a mio agio in un percorso che mi stringe; come un vestito prestato.
Sempre oggi, ho litigato con mio padre.
Una sciocchezza. Una di quelle cose che non valgono nemmeno il fiato sprecato. Eppure, in quel momento, abbiamo scagliato parole come frecce affilate: gonfie di rabbia, marcate dall’intenzione di ferire.
Mi si è stretto qualcosa dentro. Le lacrime scendevano incessantemente: gocce incandescenti, pronte a dare il loro meglio, stanche di essere trattenute, nascoste.
Ancora, ho visto una sequenza di foto di due mie conoscenti sui social: spensierate, leggere, con lo sguardo proiettato verso sogni reali, verso qualcosa di più grande.
Mi si è attorcigliato lo stomaco.
È diventato corda, il mio stesso pensiero ha iniziato ad annodarlo lentamente, con gesti precisi, come chi sa bene cosa sta facendo — e lo fa comunque.
Ho provato gelosia, poi angoscia.
Perché non io? Il mio valore si trova in uno sguardo proiettato verso qualcosa che non mi appartiene?
Eppure, anche oggi, al lavoro, sono stata gentile.
Ho scelto parole morbide, dolci, attente e comprensive: per far sentire agli altri che ero presente, che stavo ascoltando tutto quello che mi stavano dicendo, per davvero. Una signora mi ha chiesto un campioncino, anche se aveva speso poco, gliene ho preparati più di uno. Mi ha ringraziato con calore.
Durante il turno, più di qualcuno mi ha ringraziato per come mi ero posta. Io ho sorriso, li ho salutati con cura, invitandoli a tornare presto a raccontarmi come si sarebbero trovati con i loro acquisti — o se i regali scelti insieme sarebbero stati graditi.
Lo so, essere cordiale fa parte del mio ruolo. Ma a me piace andare un po’ oltre.
Forse è il mio modo di restare intera, anche quando dentro qualcosa si incrina.
E forse, se la gentilezza passa attraverso me, può anche arrivare altrove.
Più tardi, il mio capo ha fatto cadere mezza bottiglia di balsamo.
Ci siamo guardati in silenzio per qualche istante, poi ci siamo chinati, fianco a fianco, per pulire. Tra i suoi occhi irritati, rovistavo una risata o un sorriso — qualcosa che rendesse tutto meno imbarazzante per lui.
Mentre strofinavo il pavimento e lui il suo pantalone, ho lasciato scivolare via l’idea di raccontare l’episodio, tra una risata e l’altra, a un’altra collega.
Non sono sicura che farebbe lo stesso per me.
Subito dopo, mi ha mostrato una foto della sua fede: scintillante, piena di diamanti che brillano sotto la luce della fotocamera. Brillava come se tutto fosse già deciso. Ho chiesto del matrimonio: del catering, degli abiti, delle partecipazioni. Ha menzionato lo stress e qualche litigio, ma non vedono l’ora. Immagino che non sia facile gestire tutto.
Gli ho detto che sono felice per lui.
E lo sono. Nel modo in cui si è felici per qualcuno da lontano.
Verso sera tardi, stanca, ho completato la lettura di un libro.
Uno di quelli che arrivano dritti al punto, senza fare rumore. Quelli che toccano tutte le corde giuste, che ti fanno venire la pelle d’oca. Quelle letture che lasciano quella strana malinconia che ti porta subito a cercare un altro libro — non per dimenticare, ma per restare lì un po’ di più.
E sempre oggi, nonostante tutto, il sole domani tornerà a sorgere. Con la stessa luce. E lo stesso silenzio.
Non può aspettare nessuno.
Nemmeno me.
Sorgerà identico, sopra tutto ciò che si è mosso.
E anche su ciò che non si muoverà più.
Ma forse anche domani, con tutto ciò che mi attraverserà, ci sarò ancora.