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Federica
Un nuvolone nero ha iniziato a farsi spazio prepotentemente sopra la testa di Federica. Neanche il tempo di chiedersi se verrà a piovere che Federica si ritrova zuppa e fradicia.
Di corsa prende l’ombrello, il più brutto che ci sia, l’indiano sotto casa aveva finito le scorte. Tenta di aprirlo con forza ma niente: l’ombrello è ormai un rottame. Eppure lo sapeva che da un po’ non funzionava.
Federica resta lì, impalata sotto la pioggia che ora non è più pioggia ma uno scroscio, una cascata che sembra arrivare da un cielo crepato. Sotto di lei le scarpe non riescono più a camminare mentre sopra le si avvinghiano i capelli alle guance come se volessero dirle qualcosa.
“Ma dove sto andando?” si chiede, mentre un tuono le risponde con uno schianto secco, quasi arrabbiato. Eppure ride. Non sa nemmeno perché. Forse perché non le resta altro da fare. È da un po’ che non sentiva quel suono uscire dalla sua bocca.
Una pozzanghera le riflette il viso, ma non sembra il suo. Occhi troppo grandi, bocca troppo stanca. Una bambina cresciuta a metà. Federica ci infila un dito dentro e l’immagine svanisce. “Se solo avessi lasciato il posto da impiegata”, pensa.
Si guarda le mani. Sono ancora sue. Ma un po’ arrugginite. Ci ha disegnato in un tempo remoto, da piccola, con le penne della nonna.
Le venivano fuori dei mostri bellissimi.
“Mi disegni Micio?” le diceva la nonna. E lei lo faceva. Col muso lungo, la coda che si arrotolava fino al gomito e palle di pelo che uscivano dalla bocca.
Un pipistrello le passa davanti e si appende su una quercia. Ricorda quando lo faceva lei, si sentiva una scimmia. A volte vorrebbe tornarci a quando si arrampicava nel boschetto dietro casa. Si lanciava tra un albero e l’altro, alla ricerca del frutto magico. Ogni giorno col dubbio se mangiarsi una pesca o una mela, tornava a casa con il cuore per aria.
Federica scuote la testa. Si rende conto che tutto intorno a lei è scuro e sente il fango masticarla viva. Affonda secondo dopo secondo.
“Inizio con la gamba destra o la sinistra?” si chiede interdetta.
Ricorda di una rivista intravista il giorno prima, mentre era sul treno che volava verso casa. “Non pensarci” era scritto in rosso, a caratteri cubitali, sulla prima pagina. Federica non ci ha dato troppo peso ma non sapeva che sarebbe stata la sua salvezza.
“Non pensarci Federica, devi darti una mossa!”. Le sembrava di vedere davanti a lei il bianconiglio dirle che è tardi.
Allora fa un passo. Poi un altro.
Il fango continua a tirarle le caviglie come a volerla trattenere. Ma Federica ha deciso.
Non dove, non come, non perché.
Ha deciso e basta.
Intorno a lei le lucciole si sono mangiate anche l’ultima luce. È tutto nero. Federica allunga una mano davanti a sé. Non tocca niente. Ma qualcosa la riporta.
Forse l’aria.
Forse un ricordo.
Forse se stessa.
Non sa se inciamperà in un nido di formiche oppure tra i tornelli di una metro. Non le importa.
Perché a volte il passo più importante è quello che fai quando non vedi più niente.