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La tua prima luna Pt.3 (Fine)
Camminava lentamente per quel sentiero di campagna, inoltrandosi nel muro d’aria densa e fluttuante.
Muoversi in quella sorta di nuvola calata in terra a coprire le cose dava la sensazione d’avanzare in una tazza di lievissimo chiaro d’uovo montato a neve.
L’aria aveva l’odore acre del ferro e, a tratti, dello zolfo: odori catturati dalla vicina città e tenuti in sospensione nella nebbia che, nel suo abbraccio umido, avvolgeva arbusti stecchiti e i tronchi d’alberi contorti e spogli costeggianti il viottolo.
I loro fusti, a ogni passo, apparivano da quel manto candido come anime tormentate, recluse in una muta fissità nella ricerca d’espiazione.
Il terreno era uno strato di fanghiglia gelata, composto di terra scura, sterpi e foglie marce; nel procedere doveva porre attenzione per evitare che le suole in “para” delle vecchie “desert boot” scivolassero su quella superficie sdrucciolevole.
Avanzava accumulando “prana” attraverso il ritmo di respirazione 1-4-2, per scaldare il corpo e raggiungere lo stato d’abbandono mentale, come insegnava la tecnica del Raja Yoga, descritta negli Yoga Sutra di Patanjali.
L’obiettivo era sviluppare concentrazione e calma assoluta, per ottenere il distacco dal reale e la consapevolezza di sé, dischiudendo la mente alla coscienza interiore.
La sensazione che ne derivava era di non percepire più il suo corpo, che pareva muoversi autonomamente senza un atto di volontà.
La coscienza di sé si ritirava dal corpo, confinandosi in uno spazio circoscritto della mente; in quel distacco, attraverso gli occhi, giungevano le immagini della realtà.
Tutto veniva osservato con una sensazione di assenza, come se provenisse da una telecamera in movimento che registrava, accompagnandolo passo dopo passo, lo spazio esterno in tempo reale.
Sentiva la propria mente come chiusa all’interno di un sottomarino che si muoveva immerso in un mare silenzioso, con un periscopio sopra il pelo dell’acqua che gli mostrava ciò che esisteva in superficie.
Quel paesaggio spettrale, gelido e ostile, lo immaginò nelle giornate della primavera ancora lontana o della calda prossima estate.
Sapeva che, privo di quel clima inclemente, davanti a lui si sarebbe aperta una sterminata pianura, rigogliosa di verde in infinite tonalità; l’ambiente sarebbe stato colmato dai fruscii dei piccoli animali che ora dormivano il loro sonno invernale, l’aria riempita dal brusio caotico degli insetti e dal volo degli uccelli, con i loro versi trillanti.
Tutto si sarebbe animato in quella natura e, sullo sfondo, la cornice alpina con le sue vette riconoscibili, ferme come madri pazienti e silenziose a vegliare quel crogiolo di vita.
Un chilometro dopo quel cammino, si lasciò alle spalle ogni traccia della città e il silenzio del posto era colorato solo dal suo respiro ritmato e dal tirar su col naso per la condensa che gli colmava le narici.
Come desiderava, era solo con i suoi pensieri e il suo percorso di rivelazione interiore.
La luce del sole iniziò lentamente a spandersi sul mondo, tramutando quel fluido lattiginoso in un grigio scialbo e spettrale, che tentava di resistere al nascere del giorno.
L’aria iniziava a smuoversi e apriva esigui sprazzi a rivelare tratti più definiti del sentiero.
Fu così che, da quelle nuvole di vapore invernale, lo vide apparire.
Irreale, come se si fosse materializzato dal nulla, prodigiosamente sorto dalla terra strinata di brina, come lo scheletro di un galeone fantasma affiorato da un abisso.
Era apparso, in quel deserto di fluidi evaporanti, un piccolo cimitero di campagna.
Un’isola di calcinacci e marmi tormentati di muffe, sbrecciati e consunti negli interstizi dall’usura del tempo; un camposanto sconsacrato, abbandonato e vecchio di almeno duecento anni.
Una cancellata di ferro con motivi floreali, bruna di ruggine, si alternava a un muro di mattoni diroccati e slavati, tanto consunti da apparire di un colore simile al piombo che ne costituiva il perimetro.
I cancelli d’entrata, deteriorati ed erosi dall’ossidazione, poggiavano sbilenchi e divelti dalle cerniere, ai lati dell’ingresso.
Affascinato dalla scoperta inaspettata, li attraversò.
Davanti ai suoi occhi si apriva la scenografia suggestiva d’un set in bianco e nero, d’un film di Theodor Dreyer.
Il posto versava in una totale rovina, come se un evento violento e travolgente l’avesse devastato, abbandonandolo in quelle condizioni misere.
Nel piccolo cimitero, il viale centrale scorreva tra due ali di tempietti funerari, in gran parte privi di porta d’accesso, alternati ai marmi di tombe di famiglia che spuntavano d’una spanna dal terreno; in alcune di esse, le radici sporgenti dei grandi alberi cresciuti sul viale ne avevano sollevato gli angoli.
Croci in metallo opache di ruggine o di marmo annerito sorgevano su lapidi e cappelle, accrescendo il funereo carattere del luogo.
Nelle cappelle, le cavità oscure dei loculi interni spiccavano sul grigiore livido dei marmi; ai pavimenti giacevano rovine di calcestruzzo, franate dai tetti in parte crollati.
Il silenzio solenne e luttuoso che regnava, dove si era celebrata la morte, creava il disagio interiore di compiere una sorta di profanazione.
Quasi fosse sacrilego quell’aggirarsi fra quelle tombe, mosso dal fascino lugubre del posto, con una curiosità quasi morbosa.
Il viale principale si allargava nello spiazzo che costituiva l’area delle tombe a terra, le quali si estendevano in file sommariamente regolari all’interno di quattro campi rettangolari, ciascuno dell’estensione d’una trentina di metri di profondità e della metà di tale misura in larghezza, separati da stretti vialetti di percorrenza.
Le fosse, aperte come orbite vuote, guardavano il cielo livido del mattino con la fissità muta dello stupore.
Il muro di fondo era costellato da un alveare di loculi a parete, anch’essi svuotati e privi di lapide.
In un angolo, in un abbandono caotico, giaceva un corposo cumulo di vasi funerari per i fiori dei defunti; ve n’erano di varie fogge e materiali: dal marmo alla ceramica al metallo, indifferentemente rivestiti di muffe e del muschio proliferato nei loro interstizi.
Similmente, vi erano lapidi appartenute alle fosse, allineate in lunghe file sghembe contro il muro di cinta: marmi di varia qualità e tono, sbeccati o con profonde fratture che ne segnavano la superficie, recanti le iscrizioni che accompagnavano il nominativo del defunto, incise nella pietra o con i caratteri di metallo in rilievo, molte dotate delle ceramiche ovali con l’immagine del sepolto.
Aggirarsi in quel paesaggio lugubre e surreale, accompagnato, a causa della brina che si liquefaceva sotto i timidi raggi del sole, dal soffuso sgocciolio che pioveva dagli alberi e dai tetti degli edifici.
Immerso in quella materia impalpabile e fluttuante, si sentiva simile a un fantasma privo di corpo e ombra; questa sensazione aderiva perfettamente al suo stato d’animo di quel momento.
Nel suo cappotto di panno nero, lungo a coprire i polpacci, con le ampie falde del colletto sollevate e i lunghi capelli che scendevano a toccargli il petto, immaginava la sua immagine sottile e lunga come quella sinistra di un corvo imperiale.
Da quando vestiva unicamente indumenti neri e portava quel cappotto che quasi strisciava a terra, conferendogli un aspetto altero e lugubre, i suoi compagni lo avevano soprannominato “Ozzy-2”.
Si riferivano a Ozzy Osbourne, il leader dei Black Sabbath, che certo lui ascoltava e apprezzava tra i gruppi metal.
Ma non era Osbourne a ispirargli quel modo d’abbigliarsi.
In realtà, il suo riferimento era più ricercato e occulto: si rifaceva allo stile di Pierre Clémenti, ieratico protagonista d’un film di grande tensione drammatica che aveva visto in quel periodo.
Una pellicola resa indimenticabile per la colonna sonora eseguita dai New Trolls, nel loro “Concerto grosso”, che musicalmente aveva subito adorato.
Davanti ai suoi occhi si orchestrava una sinfonia visiva fatta di malinconia, desolazione e silenzio.
Ripensò alla strana attrattiva che provava per il macabro fin da bambino.
Incautamente e sicuramente carenti di pedagogia infantile, i suoi genitori l’avevano portato con loro a vedere un film di vampiri.
Ne aveva subito una sorta di shock: quella notte, il sonno accompagnato da incubi era stato segnato da uno sfogo febbrile che la mattina successiva gli aveva impedito d’andare a scuola.
Da quel momento e per molti anni a seguire, gli era sorta la paura del buio e di ciò che potesse occultarsi in esso.
Per diverso tempo aveva avuto incubi ricorrenti: sognava d’essere solo, in una cripta buia, con la sola luce flebile d’una candela.
In quell’antro oscuro vi era un sarcofago che lentamente si apriva, rivelando un cadavere in putrefazione, il quale con lentezza ossessionante prendeva vita e avanzava per ghermirlo.
Nell’incubo si sentiva immobilizzato, colmo di orrore e impossibilitato a fuggire, così si dibatteva in un urlo muto mentre quella figura spaventosa gli sfiorava il volto con dita adunche e scheletriche.
Alla fine si risvegliava urlando e col cuore in tumulto.
Crescendo, era stato affascinato dai romanzi orrorifici: Poe, Bram Stoker, Le Fanu e decine di libri che trattavano d’esoterismo, magia nera e affini.
Il suo modo di sviscerare l’argomento “terrore” per esorcizzarlo.
All’inizio dei quattordici anni aveva incontrato lo yoga, che aveva liberato la sua mente da ogni scoria tenebrosa, facendogli trovare la luce anche nella notte più cupa e profonda.
Uno stormo di cornacchie, incuranti del clima stagionale, si levò sopra di lui; il loro gracchiare rauco lo costrinse a levare il capo verso il loro volo.
Quel luogo possedeva il potere di sospendere il tempo e il respiro della vita, come una bolla temporale in cui il passato e il presente si fossero fermati per riflettere sull’utilità della loro esistenza.
Respirò a fondo per riempirsi il corpo e l’anima di quella sensazione di magia irripetibile; sentiva dentro qualcosa di prossimo alla comprensione della verità profonda delle cose, del moto invisibile ma ineluttabile del cosmo che tutto conteneva.
Provava intimamente qualcosa di simile alla pienezza della felicità.
Sedette sugli scalini d’una tomba di famiglia, caricò di Prince Albert la sua pipa di mais e iniziò a fumare.
(Fine)