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Nella penombra della stanza, Giovanna dormiva agitata, il viso imperlato di sudore e le coperte attorcigliate attorno alle gambe. La luce del mattino filtrava appena attraverso le tende, disegnando ombre leggere sulle pareti. Da fuori, si sentì una voce impaziente:
“Giovanna! Sveglia, dai!”, era sua sorella, che bussava con decisione alla porta.
“La mamma ci sta aspettando, dobbiamo andare a scuola!”
Ma Giovanna non rispondeva. Nel suo letto, immersa in un sogno confuso e inquieto, si muoveva come se cercasse di liberarsi da qualcosa. Ogni richiamo della sorella si perdeva nel silenzio della stanza, coperto dal respiro irregolare del sonno.
Fuori dalla stanza la voce si fece più forte, ma il mondo di Giovanna, quel mondo fatto di immagini e paure che solo i sogni sanno creare, la tratteneva ancora coi suoi lacci.
Il primo sogno
C’era una volta una donna che aveva deciso di vivere per sé sola, lontana dalla civiltà. Era andata ad abitare sull’argine del fiume. La gente non l’aveva mai vista nel paese, ma la conobbe solo dopo la sua metamorfosi.
La chiamavano la Signora dei Topi, perché appena sapeva che qualche topo infestava una casa, si offriva di catturarlo. Non per ucciderlo: lo portava con sé sull’argine. Alcuni dicevano che li mangiasse, altri che fosse impazzita a prendere con sé quelle creature repellenti. In verità, lei li nutriva e li teneva per compagnia, nei lunghi giorni invernali, quando la nebbia scendeva fitta a ricopriva tutto, come un lenzuolo.
Era una donna allegra, semplice, gentile. Passava di casa in casa chiedendo se qualcuno avesse visto dei topi, anche uno solo bastava.
«Li voglio salvare,» diceva con dolcezza.
«Sono bestie anche loro, non meritano che li si faccia del male. Sapeste come sono teneri quando mi camminano sopra...»
La gente a queste parole la guardava con disgusto, ma le lasciava portar via gli animali, purché sparissero con lei.
Un giorno, tornando verso casa, la donna trovò cinque ragazzi ad aspettarla sul sentiero.
«Ehi tu!» gridò il primo.
«Cosa te ne fai di quei topi schifosi? Te li mangi, eh, vecchia pazza?», disse un altro.
«Lo sai che non è igienico tenersi in casa dei ratti?» disse un altro.
Gli altri risero e cominciarono a lanciarle sassi e zolle di terra.
Uno di loro rovesciò il cesto che la donna portava con sé: i topolini scapparono terrorizzati tra l’erba.
La donna non disse niente. Raccolse il cesto e tornò al suo rifugio sull’argine, dove il fiume scorreva lento.
Quella notte, i topi si radunarono. Ne arrivarono a decine, poi a centinaia. Squittivano come in un immenso e festoso parlamento: come se discutessero in una loro lingua.
La Signora dei Topi li guardò e sussurrò:
«Non fate loro del male, vi prego. Non voglio vendette crudeli.»
I topi obbedirono. Il giorno seguente, nel villaggio, accaddero strani avvenimenti. Le scarpe dei cinque ragazzi sparirono e ricomparvero appese ai rami degli alberi. I loro libri di scuola li ritrovarono con le pagine rosicchiate. Nelle loro merende trovarono delle pallottoline nere e marroni…
Nel villaggio, tutti risero delle loro scarpe appese agli alberi, dei quaderni rosicchiati e dei piccoli escrementi trovati nei loro spuntini.
Così, una sera di luna nuova, i ragazzi decisero che la Signora dei Topi avrebbe pagato.
«Stanotte le daremo una lezione,» disse il più grande.
«Vedremo se i suoi topi la salveranno dal fuoco.»
Uno solo di loro, Nico, un ragazzino sempre taciturno disse:
“In fondo siamo stati noi i primi a stuzzicarla, lei si è solo difesa.”
“Fa come vuoi, noi andiamo.”
Camminarono sull’argine senza parlare. Il fiume scorreva scuro, come un animale addormentato. Arrivarono davanti alla baracca: piccola, silenziosa, con una sola finestra. Dentro, la donna stava cucendo un panno, e accanto a lei i topolini dormivano, rannicchiati in un vecchio cestino. I ragazzi si nascosero dietro i cespugli.
Uno di loro estrasse una bottiglia e la agitò: l’odore pungente del liquido si mescolò all’aria della notte.
“Le facciamo solo un po’ di paura”, disse un ragazzo, anche se non ne era molto convinto.
“Per farle capire che non deve scherzare con noi”, disse un altro.
Ma prima che potessero avvicinarsi, accadde qualcosa. Dalla baracca uscì un suono sottile, quasi impercettibile. Uno squittio, poi un altro, poi mille. Un brulichio vivo cominciò a muoversi nel buio: i topi, decine, centinaia, avanzavano silenziosi, come un’ombra compatta e scura. I ragazzi arretrarono, impauriti. Il vento soffiò più forte, e la lanterna cadde, rompendosi.
Una lingua di fuoco balenò in un istante, ma si spense subito.
Dalla porta della baracca apparve la Signora dei Topi: una figura che non era più del tutto umana. La Signora dei Topi avanzava lentamente, e ogni suo passo produceva un fruscio, come di mille piccole zampe che si muovono insieme.
Il suo corpo, un tempo minuto e fragile, si era fatto più basso, più tozzo, rivestito di un pelo grigio e lucido. Le sue mani si erano trasformate in artigli sottili, agili come quelli delle creature che amava.
Il volto, però, era la cosa più terribile da vedere: gli occhi, un tempo dolci e vivi, ora brillavano rotondi e scuri, come perle di pece; il naso si era ridotto a un muso umido e annaspante nell’aria; la bocca, allungata, mostrava due incisivi bianchi, lucenti come lame.
Alle sue spalle, i topi si radunavano in cerchio, silenziosi. Alcuni le salivano sulle braccia, altri le correvano tra i piedi, come figli che cercano rifugio nella madre.
Quando parlò, la sua voce era un sussurro e uno squittio insieme, un suono che non apparteneva più al linguaggio degli uomini.
I ragazzi fuggirono a quella vista. Nessuno di loro raccontò mai cosa vide davvero quella notte.
Una sera Nico si recò sull’argine. La luna era alta nel cielo e il fiume una macchia argentea.
Una voce lo chiamò:
«Ti aspettavo.»
Lei era là, sulla riva: giovane, luminosa, bella: la pelle bianca come latte, i capelli che riflettevano la luna, gli occhi scuri e dolci. Nico non parlò, la seguì.
Camminarono lungo il fiume, tra i salici. Lei si fermò in una radura e cominciò a spogliarsi piano, sotto la luce d’argento. Il ragazzo la guardava e nella sua nudità vedeva la nascita di Venere: nata dal sangue e dai genitali di Urano, mescolata alla spuma del mare.
Era bellezza e orrore insieme, come se tutta la natura si fosse raccolta in lei:
l’acqua, la terra, la carne e il sangue.
Gli sorrise.
«Non temere. Io sono la natura, la natura del fiume. Tocca, e capirai.»
Nico la toccò, e la sentì viva come un animale. Poi la baciò, lei sentì il suo membro che affondava in lei con colpi decisi ed estenuanti. Durante l’amplesso, lei lo graffiò sulla schiena, lasciandogli segni profondi. Lui non gridò. Vide, nella luce della luna, il volto di lei mutare: le labbra che si ritiravano, il naso che si faceva muso, gli occhi che brillavano come due gocce nere. Davanti a lui, una grossa ratta grigia lo fissava con tenerezza.
Nico capì. Quella non era follia, né maledizione: era la verità nascosta della vita, la purezza selvaggia che l’uomo civilizzato teme. E allora in quel momento lui le vide. Era tre forme femminili che scrutavano con occhi neri e lucenti l’astro che era parcheggiato nel cielo, quella falce di argilla. E poi vide che volgevano lo sguardo verso di lui ed ebbe paura.
“Non aver paura di loro…”, gli sussurrò la sua compagna di cui vedeva solo i due occhi di brace, e intanto gli afferrò il polso.
Quando riguardò quelle forme e quegli occhi sentì ogni fibra del suo corpo fatto bersaglio di dardi acuminati che trafiggevano la sua pelle e il dolore che si ramificava in mille vie fino a trovare la strada del suo cervello. Quasi svenne per il dolore. Sentì stringere, in quel momento di parossismo, il polso della mano.
Vide qualcosa di strano nella sua mano, era diventata trasparente nella notte, poteva vedere le foglie della riva del fiume al di sotto di essa.
Guardò al colmo dell’orrore, sgomento per quella trasformazione, la sua compagna che intonò una nenia, una cantilena che riecheggiò lungo il fiume:
“Oh, grandi Madri…grazie!
Siete voi che avete compiuto la grande trasformazione!
A voi rendo grazie del dono,
A voi che siete lo spirito della Natura, unica e vera Dea!
A voi mi prostro!”
Le forme femminili sparirono ed ora Nico sentiva che il fiume e tutta l’aria intorno si fosse come rappacificata, come se la natura avesse ripreso il suo corso naturale. Poteva risentire ora il lieve sciabordio delle acque del fiume contro i sassi, e il verso del gufo.
Quando il giorno venne, la signora dei Topi era scomparsa. Nico tornò al paese in silenzio, con le ferite ancora fresche sulla schiena.
Da allora non parlò più, e non si vide più in giro, nel paese. Solo la notte, chi passava sull’argine, lo vedeva seduto a guardare l’acqua, e intorno a lui, piccoli occhi brillavano nell’erba.
La Signora dei Topi se ne andò verso il fiume, si incamminò lungo l’argine. I topi la seguirono, una fiumana viva che si confuse con le acque scure, fino a sparire nel buio. Da quella notte, nessuno vide più la Signora dei Topi. Ma nelle notti di nebbia, qualcuno giura di udire un fruscio che viene dall’argine, un suono lieve, continuo, come un respiro che si mescola al mormorio dell’acqua. E se si ascolta bene, tra gli squittii, sembra di sentire una voce dolce che sussurra:
“…sono bestie anche loro, non meritano che li si faccia del male.”
Giovanna si voltò nel letto.
Il bussare della sorella si faceva sempre più insistente, ma Giovanna non rispondeva. Il rumore, invece di destarla, la spingeva più a fondo nel sonno.
E lì, come in una seconda vita, il sogno riprese forma.
Il secondo sogno
La donna si trovava in una grande sala illuminata da candele tremolanti. Le pareti erano coperte di specchi e velluti rossi. Intorno a un tavolo lunghissimo, gli invitati ridevano, brindavano, mangiavano con le mani unte e impazienti. Tutti portavano abiti d’altri tempi, parrucche bianche e visi truccati di cipria.
Era un matrimonio, in perfetto stile settecento.
La sposa era bellissima in quel vestito pieno di ricami e svolazzi, lo sposo la fissava con un sorriso.
Allora la porta si aprì.
La donna entrò, pallida e vestita di scuro. Nessuno l’aveva invitata, ma tutti tacquero, nella sala i suonatori di violino smisero di suonare. Lei camminò fino al tavolo, prese una manciata di frutta candita, la portò alla bocca, poi sputò quel boccone dolciastro dritto contro lo sposo.
«Dunque, non ero abbastanza per te… tuttavia lo sono stata una volta. Non ti ricordi più?»
Lei si avvicinò ad uno specchio che si incrinò con un suono acuto, poi si frantumò in mille schegge. E poi successe l’impensabile: i volti degli ospiti assunsero un atteggiamento cattivo, gli occhi di tutti divennero neri come biglie e rilucevano beffardi. Dalle estremità dei pantaloni degli invitati cominciarono a spuntare delle code che si dimenarono unte e schifose. E fu la baraonda gli invitati si erano trasformati in enormi roditori, cominciarono a saltare letteralmente sui vassoi delle pietanze squassando la tavola in tutti i modi e rovesciando ciò che vi era appoggiato sopra. Poi si attaccarono l’un contro l’altro per accaparrarsi le ultime leccornie succulente di quel banchetto. Poi uno di essi adocchiò gli sposi…
La donna restò sola. Sul suo volto, ora distorto da un sorriso che non era più umano, scivolò una luce metallica. Nel silenzio che seguì, si udì solo un piccolo fruscio: come un esercito di zampette che si disperde nell’ombra: anche lei si era trasformata.
La Signora dei Topi abbassò il capo, soddisfatta. E mentre il sogno si dissolveva, il bussare della sorella tornò a farsi vivo, più vicino, più reale.
Giovanna aprì gli occhi di scatto. Qualcosa le correva accanto, veloce, sotto le lenzuola. O forse era solo il suo cuore.