Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Il cielo è un gioco di luci ed ombre che giace, come una coperta, sulla lingua d’asfalto rovente.
Pozzanghere di arsura, allucinazioni liquide, si aprono sulla strada e diventano bocche di catrame che sputano olezzi di tetra siccità.
Il sole abbaglia e macchia di luce bianca l’orizzonte, immobile nel suo azzurro imperfetto simile ad un oceano, mentre il caldo mi avvolge come una seconda pelle, frantuma i paesi che attraverso e li muta in una manciata di macerie roventi.
Anche i pensieri sudano, in questo pomeriggio infernale, e colano sulla pelle come un fiumiciattolo untuoso.
Il motore urla, la moto corre e fende il muro di vetro bollente che si staglia davanti, le sospensioni danzano con le buche e le cromature del manubrio raccolgono i raggi del sole, li assimilano e li dividono, sprigionando decine di riflessi che prendono sottobraccio gli evanescenti ricami bianchi di morbidezza lasciati dagli aerei che solcano il cielo attraverso strade invisibili.
Intorno, milioni di ettari di aperta campagna.
Più avanti, a troneggiare come uno spettro solitario su questo cimitero di terra bruciata ed erba secca, già intravedo la meta.
Di edifici abbandonati la Lomellina è piena.
Spesso si tratta di un cascinale, una casa, oppure un casello della ferrovia, con i vetri in frantumi che si mescolano ai calcinacci su pavimenti abituati più alla polvere che alla luce.
Quasi sempre i muri sono pieni di scritte e l’intonaco, devastato dall’umidità, ha perso buona parte di quella sua vecchia pittura, fatta a rullo, con i disegnini di foglie e boccioli.
Dentro, l’aria è un miscuglio di odori diversi: polvere, vecchia fuliggine ed urina di gatto, mentre fuori, ciò che un tempo era un giardino o un’aia, ora è una specie di boscaglia, dove le bisce faticano a schivare i rovi.
Ogni paese ha un edificio del genere, non ci si può sbagliare e, infatti, eccola qua.
Affiancata dai ruderi del vecchio caseificio, con la sua alta ciminiera di mattoni ora bisognosa di un’abbondante dose di Viagra, si staglia la Casa dell’Orrore.
La chiamavamo così, fin dalla notte dei tempi, perché quell’edificio ha veramente un aspetto molto sinistro, tanto che qualcuno potrebbe pensare che sia direttamente uscito da un racconto di Edgar Allan Poe o da qualche visione di Lovecraft.
Con le sue decorazioni a graffito, i suoi infissi cadenti e la caratteristica torretta vetrata, quella vecchia villa pare sospesa nel tempo, tra la vegetazione e il grigiore delle nebbie, ed emana un fascino davvero inquietante.
Il suo romantico abbandono, le forme delicate, i colori tenui, le vetrate colorate in stile Art Déco che risplendono nel sole, fanno rivivere la villa, tra le risaie ed i rumori furtivi della campagna, ed infondono un particolare senso di gelo.
È sempre stata lì.
Fin da quando il più anziano del paese aveva memoria, lei era sempre stata presente.
Anche le prime fotografie del luogo, nella carta ormai ingiallita, in un bianco e nero che il tempo aveva sfumato in un’ocra quasi omogeneo, la ritraevano sempre così, imponente e austera come ora, solo più giovane.
Quando eravamo piccoli c’era qualcuno che la chiamava “La casa del Conte Dracula”, oppure, “La casa della Famiglia Addams”, ma quelli erano bambini di città, che in campagna ci venivano di rado e della campagna sapevano ben poco. Intontiti dalla televisione si meravigliavano che le mucche non erano viola e, quando tornavano a casa, raccontavano che in campagna le galline andavano in giro vestite.
Per questo Casa dell’Orrore era e Casa dell’Orrore è rimasta.
E così si è sempre chiamata ogni volta che la si tirava in ballo, ogni volta che, per qualche motivo, la si doveva menzionare.
Quel soprannome era come un’infezione che contagiava in silenzio costringendo a ricorrere a quell’infallibile perifrasi.
E, come un’infezione, migrava tranquillamente da un discorso all’altro:
…per la raffineria, proseguite dritto poi, dopo la Casa dell’Orrore, girate a destra…
…ieri un camion si è ribaltato davanti alla Casa dell’Orrore…
…non mi sono bagnato tanto perché ha iniziato a piovere appena dopo la Casa dell’Orrore…
Ma poi, con l’avvento del Web, le cose cambiarono.
E gli ingredienti erano tutti lì, a portata di mano.
Prendete una villa d’inizio Novecento, elegante ma sinistra, sperduta in mezzo alla campagna, aggiungete una moglie fedifraga che si fa trovare a letto con lo stalliere ed unite un marito cornuto che trasforma il finale in un lago di sangue ed ecco sfornata una delle leggende più cliccate del web: La Villa degli Amanti Maledetti.
Mescolando corna e sangue non ci si sbaglia mai e, infatti, online la leggenda spopola.
Articoli, video e forum: ovunque si accenna a paesi abbandonati o case fantasma, immancabile spunta la sagoma tardo liberty della Casa dell’Orrore, ovviamente con la torretta bene in vista.
Le versioni differiscono leggermente tra loro, cambia qualche dttaglio, ma il succo è sempre quello: nella villa è avvenuto un massacro e da allora è infestata dai fantasmi, così cattivi da spingere addirittura al suicidio tutti i proprietari successivi.
E come se non bastasse, si legge anche di decine automobilisti pronti a giurare di avere visto dei bagliori sinistri provenire dalle finestre, magari dopo qualche bicchiere di troppo.
Tutto un mondo intuito in pochi secondi dal finestrino di un’auto, sbirciando fugacemente tra gli alberi i vetri impolverati della torretta, pure iniezioni horror per un racconto già di per sé estremamente contorto e strampalato.
Una storia piena di inesattezze e punti oscuri sui quali, purtroppo, gli amanti dei sensazionalismi non hanno avuto scrupolo a fantasticare, troppo spesso preferendo vaneggiare e speculare sulle disgrazie altrui e dare più peso alle maledizioni che alle fortune.
Senza contare che il nome affibbiato dai novelli amanti del brivido è troppo lungo e mette in difficoltà i pochi che si sforzano a non utilizzare il solito epiteto.
In ogni discorso la scenetta è quasi un cliché.
“Sul Web si parla della Villa degli Amanti Maledetti…”.
“La Villa di chi…scusa?”.
“Ma sì, La Villa degli Amanti Maledetti…”.
“Eeehhh!??”.
“La Casa dell’Orrore!”.
“Ah! E dillo subito, no!”.
E giù a ridere.
Perché di soprannaturale e demoniaco non c’è proprio nulla. Nessun fantasma, nessuna magia.
Nulla di pauroso di cui la gente mormora piano facendosi il segno della croce, nessuna leggenda infernale appena sussurrata perché nessuno se la possa ricordare il giorno dopo alla brillante luce del sole.
Basta solo mantenere la testa sulle spalle per capire che, probabilmente, il mistero che aleggia intorno a questa dimora è nato dalla fusione di più eventi di cronaca nera ormai persi tra le nebbie dell’oblio.
Infatti, se ci si arna di pazienza e si seguono le tracce ufficiali, si apprende facilmente che il famoso massacro avvenne da tutt’altra parte e, peraltro, quando la villa non esisteva ancora.
Anche la storia che vede il suicidio dei proprietari successivi è completamente campata in aria.
Però dei morti ci furono davvero.
Il primo di essi fu proprio lo sfortunato proprietario, che la fece costruire all’inizio degli anni Trenta e che se la godette poco perché, qualche anno dopo, cadde da una scala e morì con la colonna vertebrale spezzata in due.
Lo seguì il figlio una ventina di anni dopo.
Grande appassionato di auto sportive, il giovane rampollo scommise che sarebbe arrivato a Roma in meno di cinque ore.
L’impresa era veramente ardua perché, a quel tempo, l’Autostrada del Sole non esisteva ancora e molte strade provinciali erano strette e tortuose e, in parecchi tratti, nemmeno asfaltate.
Ad ogni modo, malgrado questi ostacoli, il giovanotto stava riuscendo nell’impresa quando, alle porte della Capitale, un grosso platano decretò la fine della gara.
E così lo sfortunato pilota, partito sopra quattro ruote, se ne tornò a casa dentro quattro assi.
La famiglia, dopo una decina d’anni circa, decise di trasferirsi e vendette villa e terreni ai capostipiti dell’attuale proprietario. Fine della trasmissione.
All’attuale proprietario la villa, anche se non la abita, non ha portato sfortuna, proprio no, dato che oggi è uno dei maggiori produttori di riso a livello mondiale.
Altro che maledizione.
Ma si sa che, a volte, il confine tra reale e l’irreale è solo un velo e per parecchia gente la villa è sicuramente un ottimo tunnel verso le più orribili fantasie. La solfa è sempre la stessa: la dimora è maledetta e chiunque entri in quelle stanze muore.
Tutte chiacchiere senza senso, storie strampalate celate tra le foschie dei piccoli borghi, tenute a galla nella superstizione, interessanti come il WI-FI quando non c’è campo.
Vero è che la villa è veramente bella e meriterebbe ben altro destino che restare così, impenetrabile e misteriosa, abbandonata e parzialmente occultata da un folto groviglio di vegetazione, con il suo bel giardino ridotto ad un ammasso di sterpaglie polverizzate dal sole.
La moto affronta l’ultimo set di buche, poi lascia la provinciale e svolta in una stradina, quasi completamente invasa dalle erbacce, fermandosi tranquilla all’ombra di un grosso pioppo.
Ad una ventina di metri circa, al di là di un cunicolo di vegetazione dove ortiche, soffioni, sambuchi, robinie e rovi si intrecciano fino ad escludere cielo e luce e trasformano il paesaggio in un angolo di Amazzonia in piena Lomellina, intravedo la casa: la Casa dell’Orrore.
Sono arrivato.
Non è la prima volta che la vedo, ovviamente, ma non mi sono mai fermato, non così vicino.
Da ragazzini ne avevamo esplorati tanti di luoghi abbandonati e fatiscenti, e sempre con successo, ma con la Casa dell’Orrore non c’è mai stata partita.
Senza il dono dell’invisibilità avvicinarsi è sempre stato impossibile: la villa è vigilata e il guardiano caccia via chiunque ficchi il naso troppo in profondità. Lo sperimentammo sulla nostra pelle, è il caso di dirlo, la prima, ed unica, volta che tentammo di sgattaiolarvi dentro. Ricordo ancora il terrore puro ed il simultaneo scatto da centometrista che dovemmo fare, io Mario e Adolfo, per seminare i dobermann che il guardiano ci aveva sguinzagliati dietro.
Adesso non sono più un ragazzino e ho l'agilità, la sensualità e la coordinazione di un pezzo di legno e lo scatto da centometrista me lo posso solo sognare di notte.
In compenso la vecchiaia mi ha permesso di conoscere più cose.
Due in particolare: il guardiano della villa ha chiesto un mutuo presso la banca di cui io sono il capo area locale e, attualmente, a guardare il suo estratto conto, si direbbe sia lui quello uscito dall’Euro.
E siccome due più due continua a fare quattro, è stato abbastanza semplice soddisfare la mia mai sopita voglia di esplorare edifici abbandonati ed in rovina, aggiungendo un altro e, questa volta, grandioso trofeo al mio già ricco personale palmares, inaugurato più di quaranta anni fa.
Mi addentro a fatica in quella specie di galleria verde, che appare ora come una bocca misteriosa pronta ad inghiottirmi, e poso i piedi su quello che secoli prima era stato il giardino della villa.
Il guardiano è già lì, con un grosso mazzo di chiavi in mano e la stessa vivacità espressiva di un busto di marmo.
Mi scruta come se fossi uno scarafaggio sbucato dal sifone del cesso e quando inizia a parlare la sua voce è poco più che un bisbiglio.
“Ho fatto come ha detto lei…ma…se posso permettermi…”.
Vuoi vedere che adesso questo qui, in barba agli accordi, alza la posta?
“Se posso permettermi…lasci perdere, se ne vada…non entri in quella casa!”.
Gli chiedo se ha bevuto troppo o se, invece, vuole solo prendermi per il culo.
Mi passa le chiavi mentre una lacrima gli riga la guancia.
“Ci ripensi…quella casa è maledetta! E tutti quelli che…”.
È proprio vero. Ragionare con gente dal quoziente intellettivo di un paio di mutande sporche è come combattere una guerra di intelligenza contro gente disarmata.
Spiego al guardiano che non ho certo tempo da perdere con storielle strampalate messe in giro dallo svitato di turno e gli ricordo che, se non rispetta i patti, tempo domani si troverà in mezzo alla strada con la casa pignorata.
“Va bene…faccia pure, però…se fossi in lei…”.
La sua voce è incrinata e sa di aglio, alcool e tanto sonno arretrato. Lo mando tranquillamente a quel paese e mi incammino deciso verso il massiccio portone.
Penetro a fatica nella savana che un tempo era stato il giardino.
Immagino i solerti giardinieri di un tempo al lavoro mentre il padrone li osserva impettito. Rigogliose piante di forsythia vengono modellate ad arte a forma di palla, altre, invece, imitano le sembianze di bassi muri, dai contorni sinuosi, che dipingono lussureggianti aiuole rigogliose di rose e violette, mentre la photinia viene sapientemente tagliata a formare siepi più alte che ombreggiano il giardino creando zone di ammiccante chiaroscuro.
In questo Eden le donne della casa passeggiano tranquillamente sui vialetti di sassi, perfettamente puliti, sfoggiando abitini bianchi dalle lunghe gonne e avendo ben cura di ripararsi dal sole con graziosi ombrellini.
Ansimo come un mantice da fonderia. Quando ero un ragazzino sarei arrivato al portone con la stessa velocità di uno scoiattolo, ma sia l’età, la pancia, le troppe Marlboro e il fondoschiena pesante da SUV dipendente, rendono lo scostare le fronde un esercizio di atletica pesante e trasformano qualsiasi movimento in una salita senza fine, con il risultato che, adesso, mi sento come se la stanchezza l’avessi inventata io.
Bestemmio peggio di un pirata che si accorge di aver finito il rum in mezzo all'oceano e, ad un passo dalla tachicardia, riesco finalmente ad arrivare al portone, una bocca nera sulla facciata della villa, ed infilare le chiavi nella toppa.
La apro e vengo accolto da uno sfacelo di muffa, stantio, pezzi di vecchi mobili e cadaveri di ricordi.
Il grande salone, dal pavimento un tempo immacolato e dal soffitto adorno di stucchi, sembra una grotta oscura dalle pareti scabre, ingombra di favolosi avanzi di un’epoca trapassata.
Scritte latine si intravedono appena nei riquadri sopra i davanzali: le mie scarse reminiscenze mi suggeriscono essere inni alla morale, alla patria, al lavoro e trasmettono ancora l’autocompiacimento di chi aveva edificato la dimora, la sua fiducia nel futuro, la sua voglia di eternarsi.
Altre scritte si intravedono ai margini del soffitto color ocra, offeso dall’umidità, mute e labili vestigia di un tempo che celebrava una grandezza oggi definitivamente tramontata e qui frantumata nella malsana semioscurità puzzolente di chiuso e di vecchiaia.
Non mi sembrano inni, come le precedenti ma non voglio perderci del tempo. Lascio perdere e proseguo.
Più avanti, ci sono due locali più piccoli, probabilmente lo studio e la biblioteca.
Un tempo, qui, erano discussi i problemi principali e qui venivano prese le decisioni più importanti.
Oggi i locali sono completamente vuoti, con il pavimento sudicio e colmo di detriti.
Arrivo in cucina avanzando su di un bel pavimento a mosaico rosso, coperto da uno strato di sudiciume, che si sta autopromuovendo a terriccio.
Mi sposto per il locale mentre si spande l’eco dei miei passi amplificato dalle pareti spoglie.
Le pareti mostrano uno sfondo un tempo pastello. Sui muri sono rimasti gli aloni dei vecchi mobili, disegnati dal tempo con puerile imperfezione.
Il locale, dove un tempo ferveva l’attività di cuochi e camerieri e soavi profumi di prelibate leccornie si spandevano ad ogni ora, è malinconicamente vuoto e puzza di vecchio.
Il lavandino c’è ancora. È enorme ed è costituito da un unico gigantesco blocco di serizzo grigio scolpito. Ognuna delle due vasche è grande come un intero lavandino moderno e sull’immenso sgocciolatoio potrebbe tranquillamente sdraiarsi una persona adulta. Il lungo tubo di rame dell’acqua, collegato ai rubinetti a forma di timone, ricorda il collo slanciato di un airone.
Senza dubbio è un’autentica rarità, mai vista finora da nessuna altra parte: se fossi meno coscienzioso mi verrebbe in mente di smurarlo e portarmelo a casa, come un moderno tombarolo ma, per fortuna (o no) non ho ancora sviluppato quel vizio e così mi limito a scattare una marea di foto con lo smartphone.
Sul lato opposto c’è una porta. Oppone una certa resistenza ma riesco ad aprirla mentre scaglie di vernice secca smettono di essere rughe sollevate sul legno e si sbriciolano sul pavimento.
La caldaia è lì che mi aspetta.
È immensa ed assomiglia ad una locomotiva a vapore messa in piedi.
Un intrico di tubi, coperti da una coltre di ragnatele ammuffite, si dirama dal grosso cilindro di rame tuffandosi nei muri.
Accanto c’è la carbonaia.
È ovviamente vuota ma la polvere nera non si è ancora del tutto dissolta, così come il profumo acre del carbone un tempo contenuto.
Chissà che fatica far marciare un bestione del genere.
Esco dalla cucina e salgo il grande scalone centrale che ancora cerca, nella rovina generale, di trasmettere il senso di grandiosità voluto dai progettisti.
Lo scalone sale in morbide volute al piano superiore. La sola ringhiera, sormontata da un passamano in mogano, purtroppo rovinato, è veramente un gioiello di un’epoca in cui le signore portavano ampi cappelli e i signori sfoggiavano baffi a manubrio.
Gli scalini sono sontuosi, di pietra pregiata accuratamente sagomata: le donne di classe vissute qui non avevano certo avuto difficoltà a poggiare i loro ben curati piedini, calzati di fini scarpine e stivaletti, per salire al piano superiore.
Ci sono ancora gli anelli per le bacchette di ottone che fermavano il tappeto centrale.
Chissà perché mi immagino che fosse stato di colore rosso.
Arrivo di sopra e subito mi colpisce la vastità delle grandi camere da letto, dove la tappezzeria si stacca e cola giù dalle pareti in strisce mollicce, come una maligna cascata, viscida di umidità e polvere raggrumata, sepolta nella cancrena grigia che tutto avvolge, tra scaglie di intonaco ed una marea di detriti.
Tutto è immenso, decrepito e solcato da crepe. Il regno delle ragnatele si apre davanti ai miei occhi, con i soffitti a cassettoni che ancora mi sovrastano, sebbene deteriorati e fessurati.
Alcuni elementi sono caduti al suolo e sono stati subito fagocitati dalla polvere.
Mi sposto nell’altro locale e…CAZZO!
Un’ombra, qualsiasi cosa fosse era di sicuro un’ombra.
No, non potevo sbagliarmi, non ero di certo rimbambito.
Un'ombra proiettata sul muro della stanza, quasi dietro di me, nel punto dove si rifletteva la luce proveniente dalla scalinata un tempo guarnita da una pregevole vetrata policroma della quale restavano solo vestigia.
Chiamai il guardiano, credendo che quello mi avesse seguito in un improbabile gesto di coraggio, invece di restarsene ad aspettarmi in giardino come promesso.
Niente, nessuna risposta.
Mi guardai attorno, in alto. Nessuno.
Mi riprendo e proseguo. Anche al piano superiore le stanze sono tutte uguali e tutte desolatamente vuote.
Ma nel bagno le cose cambiano.
Ne avevo intravisto la tappezzeria fiorata, ormai cancerosa, attraverso una porta socchiusa e semi scardinata.
Entro e mi manca il respiro e non solo per l’aria malsana.
Il bagno è un’altra ampia stanza con il soffitto piatto ancora ricco di decorazioni ed il pavimento coperto di polvere.
Anche qui dei mobili non è rimasta più traccia però, i tubi di rame per l’acqua sono ancora integri e tutti al loro posto. Accanto alla finestra, quasi all’angolo della stanza, troneggia un enorme termosifone di ghisa alto come un ragazzo adolescente. Non ne avevo mai visti di così grossi e massicci. Chissà come si doveva stare bene qui dentro, un tempo, mentre fuori il gelo tagliava il respiro.
I sanitari in ceramica sono integri e la loro foggia ricorda tempi lontani. Divisi dal resto del locale da un delicato separé di legno con un’ampia porta scorrevole, oggi definitivamente deragliata, sono incrostati da spessi strati di sporcizia.
La vasca ed il lavabo sono entrambi scolpiti interamente nel granito rosa, quasi come due antichi sarcofagi egizi. La vasca si staglia in fondo al locale, dove le finestre creano un angolo, proprio dirimpetto la torretta, e può tranquillamente ospitare tre persone. Il lavabo invece è appoggiato al muro portante e due persone non avrebbero difficoltà ad utilizzarlo affiancate.
Entrambi hanno ciascuno un solo grosso rubinetto, in acciaio, che funge da miscelatore: quello della vasca raffigura l’Aquila dell’Impero, mentre quello del lavabo è a forma di Fascio Littorio.
Altri simboli di grandezza, altre rarità che sul mercato dell’antiquariato devono valere una fortuna, ma che qui restano sepolti dalla coltre grigia ed indefinita del tempo e dell’oblio, insieme a chi li ha ispirati.
Mi giro per tornare indietro e…ANCORA!
L'ombra era riapparsa in una delle stanze che si affacciavano sul ballatoio superiore, la intravidi da una delle porte socchiuse stagliarsi sulla tappezzeria corrosa.
ADESSO BASTA! Con un calcio ben assestato feci crollare la porta sbilenca provocando un gran fracasso subito seguito da un immenso sbuffo di polvere.
Nessuno.
Una stanzia ampia, col soffitto piatto, ancora ricco di decorazioni.
E sul pavimento sudicio nessuna traccia.
Un brivido, un sospetto, e poi: “Ma no! Non è possibile, non è possibile che…”.
Decisamente non doveva essere possibile, certamente doveva esserci…MA PORCA TROIA!
Dal soffitto si stacca un mattone, insieme a pezzi di intonaco, e mi cade addosso.
Riesco a schivarlo quel tanto che basta per salvarmi la zucca ma non per impedire che finisca sul braccio, graffiandolo.
L’eco della caduta rende sinistra l’atmosfera.
Il graffio è fastidioso, certo, ma praticamente indolore per uno come me che ha temprato la propria infanzia in mezzo alle campagne, riempiendosi di croste ed ematomi perenni e rischiando di finirci secco un bel po’ di volte.
Il problema è che… sono solo. Solo a tu per tu con i resti inquietanti della Casa dell’Orrore.
Il posto è isolato e sto cominciando a chiedermi se ho fatto bene a ficcarmi dentro a tutto questo marciume, a rovistare dentro questo letamaio.
Torno in me e mi convinco che, sotto sotto, mi sto solo suggestionando.
E poi non è accaduto nulla di soprannaturale e, del resto, cosa dovrebbe accadere?
Io non credo ai fantasmi, non ci ho mai creduto, neanche da bambino.
Piuttosto, qui il pericolo non sono i fantasmi, no, non quelli, ma il fatto che mi possa crollare tutto in testa!
Tutto il resto sono solo seghe mentali, utili quanto colorare l’album della Carica dei 101.
Ah, ma se fossi il io proprietario non perderei tempo: farei una bella spianata e trasformerei il tutto in un resort per turisti facoltosi, quelli con dei bei soldi, non certo quelli che vengono in banca da me solo per rompere i coglioni.
Con tanti saluti ai fantasmi e ai detriti.
Ritorno sui miei passi, scendo ed attraverso di nuovo l’immenso salone.
Immagino le sontuose feste che vi si tenevano, un tempo. La musica briosa di un’orchestrina, i signori e le signore che danzano in abiti vaporosi ed eleganti, le sfarzose cene, ricche di portate, mentre a pochi metri i salariati vivevano dentro catapecchie insieme alle bestie.
Immagino i signori, dopo una battuta di caccia autunnale, sorseggiare insieme un buon brandy, davanti al camino, per scrollarsi di dosso la patina di umidità che, lentamente, è già risalita dal non lontano fiume, mentre il pallido sole di novembre ha già salutato tutti appena dopo mezzogiorno.
E li vedo poi, dopo cena, riuniti attorno al grande tavolo, immersi in una nuvola di fumo, a discutere, tra grida e bestemmie, delle principali direttive del Fascio.
Sento le loro urla, le risate, le frasi inneggianti al fascismo che si liberano dalla tavolata e prendono per mano le scritte latine dipinte sotto i davanzali e, insieme, se ne volano via spinte dal vento impetuoso che la voglia di rinnovamento e di grandezza aveva sciolto nelle coscienze della gente. Vento presto diventato un debole filo d’aria, fino a perdersi del tutto, lasciando come eredità solo detriti, al pari di quelli che, ora, troneggiano in uno di quei tanti saloni da dove, un tempo lontano, quel vento aveva iniziato a soffiare.
Esco ed il guardiano è ancora lì. Mi guarda come si guarda un condannato a morte che si mette il cappio al collo da solo.
Gli riconsegno le chiavi e gli rido in faccia. Gli dico che, al pari di tutti gli altri è solo un fifone, e che là dentro, ho trovato solo sporcizia, schifezze, ma nessun fantasma.
Nessuna apparizione dall’aldilà, ma solo muffa e polvere.
E tanti ricordi, troppi, che io, figlio di un’epoca che non ha nulla da preservare a differenza di chi invece aveva voluto, con quella casa, eternare nel marmo la memoria, non ho tempo e voglia di prendere in considerazione.
L’odore acre delle erbacce seccate dal sole si mescola all’aroma della paglia rimasta sui campi di grano appena mietuto e diventa, con l’aria rovente che mi schiaffeggia il viso, una miscela esplosiva che scava i polmoni ed incenerisce gli alveoli.
Il calore impregna l’aria e fa tremare il paesaggio, mentre le cicale friniscono forte, gridano tutta la loro rabbia ed il loro canto sembra più una richiesta di pietà.
Non se ne esce, nessun refrigerio, neanche spingendo la moto ben oltre i limiti consentiti.
Questa sembra proprio la strada che porta dritto all’inferno.
Arrivo a casa e, per prima cosa, mi apro una bella birra ghiacciata.
Il sublime liquido ambrato scende e ramifica il freddo in tutto il mio corpo.
Lo assaporo lentamente, brindando alle leggende create per puro marketing e ai creduloni che gli vanno dietro e rido, rido forte perché, come volevasi dimostrare, sono entrato nella Casa dell’Orrore e ne sono uscito vivo.
Poi sprofondo sul divano, con la stessa vitalità di un fossile.
La birra è finita e ho una dannata voglia di aprirmene un’altra.
Oltretutto sono da solo: Elena è andata a trovare sua madre e così posso spaparanzarmi quanto voglio e bere come una spugna senza dovermi sorbire le sue solite litanie, deliziose come un cactus tra le natiche.
Mi alzo per sgattaiolare al frigorifero e mi accorgo di procedere come uno a cui hanno caricato un elefante adulto sulle spalle.
Mi fa male tutto e faccio fatica persino a muovere il busto e le braccia.
Decisamente questa gita mi ha sfiancato. Temo proprio che, dopo essermi iscritto, dovrò anche decidermi a frequentarla questa benedetta palestra.
Ma ecco che arriva un terribile crampo allo stomaco e brividi in tutto il corpo.
“Ma cosa cazzo c’era in quella birra…???”, mi chiedo ansimando, “Un serpente a sonagli…???”.
Poi, una fitta, orrenda, alle spalle, come se mi avessero infilzato con una lancia.
Contratto in spaventose fitte di dolore cado a terra, trascinando la bottiglia che si frantuma in mille pezzi sul pavimento.
Un frammento di vetro mi taglia la mano; “Ottimo!!”, esclamo, “Ci mancava pure la ferita ed il sang...”.
Mi blocco come se fossi stato colpito da una paresi improvvisa ed abbozzo un sorriso di circostanza come fanno i conduttori dei TG quando non parte il servizio.
Perché non capisco bene cosa sia quella cosa che sgorga dalla ferita.
È sangue…è il mio sangue, si d’accordo, ma…perché…non è del solito colore rosso vivo?
Mi viene da ridere: se dovessi fare degli esami con quel sangue lì mi ricovererebbero a vita e mi internerebbero per l’eternità.
Altro che smettere solo di bere e di fumare!
Ma la risata si spegne subito perché vedo il graffio provocato dal mattone che mi era caduto addosso, mutare e trasformarsi in una crosta.
In una frazione di secondo la mia mente inizia ad inerpicarsi su sentieri sempre più tortuosi.
La crosta, impercettibilmente, si allarga e guadagna spazio sulla pelle: ha lo stesso strano colore di quel sangue e ricorda vagamente qualcosa.
Siorandola…anche al tatto la consistenza sembra identica.
È dura e rugosa. E il suo colore tende al rosso scuro, cupo, quasi marrone…proprio come…
Ma cosa cazzo mi sta succedendo?
La mia risposta si perde nel vuoto perché subito di crosta ne spunta un'altra, ed un’altra ancora, mentre il dolore rovista e scava dentro di me bloccando ogni articolazione e rendendo ogni movimento uno sforzo sovraumano.
Riesco ad alzarmi dal pavimento e a gettarmi inerme sul divano.
Metto in moto i miei neuroni e il castello di sabbia si scioglie alla prima ondata.
Ripenso a quello che ho visto all’interno della Casa dell’Orrore e capisco.
Capisco che, da qualche parte, il mio conto alla rovescia è appena iniziato.
La testa lascia il corpo per andarsene per i fatti suoi. Rimango lì fermo, come uno spettatore inerte che assiste ad uno spettacolo di cui non capisce la trama.
Con lo sguardo percorro la strada, sfiorando l’asfalto, in cerca di una direzione che non troverò. Ascolto il silenzio torrido dell’estate, osservo il paese spoglio, affogato nella calura, con le finestre segregate nel loro ventre, ed i lampioni fissi a segnare una traccia dentro questo deserto di fuoco.
Fischiano le orecchie, la testa e le tempie pulsano al ritmo schizofrenico ed esasperato di un tiptap suonato da una orchestrina di squilibrati, la paura inizia a circondarmi nel suo freddo abbraccio.
Resto in silenzio, mentre tutto dentro di me fa a botte e se ne va in frantumi, esplode e freme per uscire, per riportare in superficie la memoria rimasta seppellita nell’inconscio.
Osservo la quiete della campagna, così astratta da poterla quasi toccare: fuori dalla finestra, sotto il portico e nel giardino il sole è ancora uno scudo di rame.
Le chiome degli alberi danzano sulle ali di una melodia incandescente, il gatto se ne sta tranquillo, accucciato all’ombra e al fresco di un cespuglio in attesa di riprendere l’ennesima battaglia contro topi e lucertole.
Spero che, almeno, finisca in fretta tutto questo dolore.
Spero che Elena torni in tempo.
Anche se non so cosa mi inventerò per spiegarle tutto questo casino.
Perché Elena non conosce tutta la verità.
E, a questo punto, non la conosco nemmeno io.
O forse, si.
Perché adesso, come un flash, mi tornano in mente quelle scritte latine che avevo visto nel salone.
E mi ricordo che una di quelle mi aveva colpito perché mi sembrava avesse un significato diverso dalle altre.
Non inneggiava alla patria, al lavoro, alle virtù o al Fascio.
Mi ricordo che sembrava più un monito.
Mi ricordo anche che non gli diedi peso perché non volevo perdere tempo.
Ma ora, mentre le croste sul mio corpo non si contano più ed anche i muscoli stanno perdendo elasticità ed assumono la consistenza di un mattone, la focalizzo per bene ed il cuore prende il posto del pomo di Adamo.
In medio tui usque in sempiternum. Dentro di te per sempre.
Già, dentro di me…
Per sempre.