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Cosa sto facendo della mia vita? Me lo chiedo oggi, quando semplicemente mi sono resa conto di essere a disagio nell’intrattenere una semplice conversazione senza impegno con mia sorella. Come sono arrivata a questo punto? Perché mi imbarazzo così tanto di me stessa? Sono domande alle quali fatico a trovare risposte logiche; eppure, ancora più sorprendentemente, non riesco a cambiare atteggiamento. Se le mie azioni corrispondessero ai miei pensieri (avrei scritto volontà, ma non sono sicura se la volontà risponda più ai pensieri o alle azioni di una persona) sarebbe tutto più semplice: mi rendo conto che qualcosa che faccio non mi piace e non ha fondamento, di conseguenza smetto di farla. E invece, inutile dirlo, non è così facile. Sembra quasi una sfida impossibile essendo anni che combatto con questa cosa. Ho provato varie strategie nel mio percorso: ignorare il problema, prendere fin troppa coscienza del problema (era diventato un pianto continuo, una lamentela inconsolabile senza alcuna conseguenza effettiva), andare da una logopedista, fare un corso online, guardare Ted Talk motivazionali di altri balbuzienti, autocurarmi cercando video online, autocurarmi partendo dalle mie esperienze e dalla mia persona… Insomma non si può dire che non stia provando. Vale la pena combattere? La risposta è sempre sì, perché l’alternativa sarebbe accettare di vivere una vita condannata alla perenne insoddisfazione e infelicità. Ormai l’idea “fluenza nel parlato” = felicità si è radicata così tanto nel mio cervello che non capisco come chiunque sia normoloquente non sia automaticamente più felice, o perlomeno con meno difficoltà.
Altre volte mi chiedo: “Chissà quanta gente vede me, magari anche mi conosce, e pensa a quante cose ho io che mi dovrebbero rendere automaticamente felice: una casa, l’opportunità di studiare, una famiglia accogliente, qualche amico, bei voti a scuola (ore all’università si vedrà), un fisico asciutto, un bel viso… Sono una persona fortunata, e anche tanto, e lo so. Eppure il linguaggio mi perseguita per la maggior parte delle mie giornate. Quanto mi dispiace non poter comunicare al mondo, non potermi esporre, non poter parlare agli altri come loro parlano a me.
Chissà se ogni vita ha la sua condanna. Chissà se serve tutto per essere veramente felici. Chissà se esiste qualcuno che si dichiara veramente felice, senza mentire. Chissà a questo punto se la felicità esiste. E, se esiste, in cosa consiste? Nel saper accettare i propri limiti (suona bene fino a quando non si arriva ai propri di limiti; lì si capisce l’ingenuità estrema di questa frase) oppure nel riuscire a superarli (sempre che sia possibile)?