Il saio gli stringeva la vita e quasi non riusciva a camminare dritto. Zoppicava tra le mura ingiallite della chiesa aiutato da un bastone da passeggio finemente intarsiato. Sulla cima spiccava il muso inquieto di un falco dagli occhi neri, che parevano scrutare gli abissi più reconditi di ogni anima persa che si addentrava nei chiostri in cerca di conforto. O forse di qualcuno che potesse ascoltarli, fosse questo una statua accigliata o un monaco silenzioso. Il bastone era l’unica cosa che possedeva, l’unico oggetto al quale non aveva saputo rinunciare dopo aver preso i voti. Sull’asta, se ti avvicinavi un poco, potevi scorgere scritte, date e nomi. Con il tempo il vecchio monaco aveva perso la sua memoria, non che ci fosse tanto da ricordare. Così aveva iniziato ad appuntare i momenti più salienti della sua esistenza, che poi erano così pochi, proprio su quel bastone. Un brutto incidente avvenuto qualche anno prima lo aveva reso debole e infermo, obbligandolo ad una immobilità statica che tanto lo faceva penare. Ma lui costringeva il suo corpo a fare cento passi ogni giorno e li contava a voce alta. Uno, due, tre. La memoria del dolore. Era l’unico momento della giornata che dedicava interamente a sé stesso. Il saio, di un paio di misure più piccole della sua, lo faceva sentire nudo di fronte agli altri monaci e gli stringeva il busto proprio dove faceva più male. Venti, ventuno, ventidue. Il crocifisso che teneva in mano aveva il peso di un macigno e spesso lo stringeva con forza, fino a sanguinare. Quando non si sentiva presente a sé stesso, e la vecchiaia cancellava un poco quello che era e che era stato, lui usava il dolore per combattere la nebbia. Aveva pensato tante volte di lasciarsi morire in quella chiesa, ma c’era ancora così tanto da fare. Da uomo pio e devoto, doveva combattere la sua crociata in nome di un dio a cui forse non credeva nemmeno più. E stringeva un poco la corda del saio, e le mani sanguinavano ancora, e ritornava lucido e presente. Per poco. Esattamente come Astrea, che si tiene in equilibro con la spada e la bilancia, il monaco teneva tra le mani la sua fede e la sua vita passata. Crocifisso e bastone. Poggiò il crocifisso delicatamente sulle labbra. Da giovane aveva viaggiato così tanto da non ricordare nemmeno da dove fosse partito. Non apparteneva a nessun luogo, nessun parente né amico ancora in vita. Forse la sua scelta era stata determinata da un profondo senso di solitudine. Far parte di quella comunità, che gli permetteva di sentirsi figlio e padre, gli aveva concesso quello che aveva sempre segretamente desiderato. Una famiglia. Era stato accolto come un fratello e per la prima volta, inserito in quella tela, si era sentito parte di qualcosa di importante. Il tassello perfetto incastrato in un mosaico di colore, e non era più andato via. Non ricordava da dove veniva, non ricordava dove doveva andare. Voleva solo restare, per un po’. Cinquantaquattro, Cinquantacinque, Cinquantasei. Al suo quarantesimo compleanno era giunto in un piccolo paesino di montagna ed era rimasto affascinato da come fosse stato interamente costruito intorno a quella chiesa. Tutte le strade portavano al piccolo cortile sul retro, dove artisti e uomini di fede erano stati sepolti. Ogni lapide era adornata da gigantesche sculture che sembravano quasi reali. La maggior parte raffigurava divinità pagane e spettri incappucciati senza volto, affiancate dalle tombe dei monaci, più scarne e semplici. Un meraviglioso paradosso, l’incontro del magico in tutte le sue forme, proprio al di fuori di una chiesa.
Era uno spettacolo capace di togliergli il fiato ogni volta, quasi come un’alba, quasi come un tramonto in riva al mare. Ma le uniche impronte imprigionate sulla sabbia che gli sarebbe stato concesso di vedere, erano mere imitazioni, era il suo correre sulla terra nuda e asciutta di quel posto fingendo che non fosse reale. Quasi come un’alba, quasi come un tramonto in riva al mare. È la malinconia che si portava dentro da tutta una vita che come un peso sulle spalle lo teneva ancorato a quel posto, che fingeva non essere reale. Ma era reale. Ed è in quella linea sottile, la linea che separa ciò che è reale da ciò che non lo è, che era intrappolato come un’impronta sulla sabbia, incapace di frenare il mare, incapace di sparire.
Ogni sera a mezzanotte, l’ora delle streghe, usciva dalla sua stanza di soppiatto per godere di quell’atmosfera surreale. Solo in quel cortile, davanti alla dea Astrea, durante le serate più fredde, proprio quando l’umidità si alzava, riusciva a dare senso alla sua fede. Con in mano il crocifisso e il bastone, sintesi della sua esistenza. La notte si alternava al giorno come in una danza e la nebbia scendeva di nuovo. In tutte le stagioni, in ogni ora della giornata, in quel cortile si respirava magia. Quando il sole era ben disposto, faceva sì che i suoi raggi sfiorassero timidamente il corpo in croce, situato proprio al centro della chiesa. Come a battezzarlo di luce, quasi vergognosi nel toccare tanta grazia. La luna invece preferiva l’arte all’adorazione. Una volta al mese, durante il plenilunio, irradiava senza pudore le lapidi, che brillavano come stelle nella notte. Il cortile, animato da costellazioni in terra, accoglieva gli spiriti come una casa adornata a festa. In quelle sere, il monaco si inginocchiava davanti ai cancelli, non sentendosi all’altezza di stare di fronte a quella meraviglia. Se avesse potuto si sarebbe sdraiato a terra e l’avrebbe baciata, avrebbe baciato ogni singolo angolo di quel cimitero. Di quel mondo. Lo sguardo del signore riusciva a sostenerlo senza indugi, posizionandosi proprio di fronte all’altare e spesso dandogli le spalle, quasi ad insultarlo. Quasi a domandargli se forse non meritasse un figlio tanto devoto, tanto pio. Invece, nel cortile, che per il monaco rappresentava la manifestazione concreta del volere di dio sulla terra, timoroso non riusciva a mettere piede. Talvolta si sentiva accolto da quelle anime che si erano ritrovate, altre sere percepiva che la sua presenza non era gradita. E rimaneva solo, con il saio addosso, nella sua stanza a pregare. In un silenzio penitente si diresse verso la sua camera, come uno degli spettri sulle tombe, il volto coperto dal cappuccio, scivolando tra le stanze insieme agli spiriti che di tanto in tanto si divertivano a gironzolare tra i corridoi mettendo a soqquadro soprammobili e argenteria.
Sacca in spalla. Spalla in corpo. Corpo morto.
Sbatté la porta con vigore e sospirando di sollievo poté finalmente spogliarsi di quel suo sacrificio, così fastidioso, che aveva il retrogusto di una dolce abitudine. La sofferenza del saio era diventata giorno dopo giorno una dolce sofferenza. In quella sua povera esistenza lastricata di fallimenti e di inerzia, giungere fino a sera e spogliarsi era ormai una piccola vittoria quotidiana. Indossò l’abito bianco e si calò giù dalla finestra. Aveva smesso i panni del monaco, ed aveva indossato la maschera che più lo faceva sentire vivo, quella della Morte. Deambulava senza problemi, la notte, e quel suo corpo infermo acquistava vigore. I muscoli tiravano sotto la stoffa e sentiva il sangue pulsare. Con l’oscurità non aveva più bisogno del bastone e del crocifisso, che lasciava nella sua stanza, poiché passato e futuro non contavano più nulla nel presente della sera. Ombra di sé stesso, il suo corpo non aveva più peso né forma. Da soggetto in venerazione, divenne oggetto venerato, da sé stesso. Santo. Di giorno accoglieva i vivi, la notte andava a trovare i nuovi morti. Come un perfetto padrone di casa, portava una rosa bianca e un’ostia, posandoli sulla terra ancora smossa e leggermente umida. E una nuova stella coloriva quel cielo cimitero. E lui baciava il suolo, ora che si sentiva degno.
Era diventato Morte tanti anni prima, quando aveva chiesto a Dio una grazia, salvare l’unica donna che avesse mai amato. Dafne dai capelli lunghi e corvini. La pelle candida e morbida, avara di carezze. Labbra rosse e carnose, da assaggiare. Il ricordo di Dafne era così vivido nella sua mente, che gli bastava allungare una mano verso il vuoto per sentire la sua stringergli le dita. Un amore proibito, fatto di sguardi colpevoli e promesse rubate. Dafne e Apharel non si erano mai veramente toccati, non in questa terra, ma i loro corpi si appartenevano, inevitabilmente. I sussurri scambiati durante la notte, suggellavano giuramenti di cui solo il buio era testimone. Le luci dell’alba cancellavano i peccati della sera, purificando gli spiriti ormai bramosi dell’oscurità. Amica e sorella, complice. Il mattino era una condanna, la notte la vera benedizione. Un amore fatto di parole e poesie, strappato ingiustamente dalla malattia. Dio non ascoltò mai le preghiere del monaco, che avrebbe rinunciato alla sua voce, alla sua memoria, che era ciò che aveva di più caro, pur di salvarla. Ma finalmente, proprio quando il monaco aveva perso ogni speranza, coscio di dover passare il resto della sua vita ad ascoltare i gemiti di dolore della persona che più amava, qualcuno rispose alla sua agonia. La Morte, benevola e magnanima, bussò alla porta di Dafne, e in un fruscio di abiti se la portò via, lasciando dietro di sé un lieve profumo di rose bianche e di medicinali. Il monaco, che viveva da sempre di carità, era andato di città in città a chiedere le elemosina per realizzare una tomba che fosse all’altezza di quella donna. Nessuno doveva dimenticare, lui per primo non poteva dimenticare. Ma aveva fatto un dono alla Morte, la sua voce e la sua memoria, così da quel giorno non proferì più parola e gli unici ricordi che gli rimasero, erano quelli che più lo tormentavano. Gli ultimi attimi di vita di Dafne. Perpetua tortura. Solo all’oscurità fu concesso di ricordare, con fare quasi nostalgico, le promesse degli amanti ormai perdute per sempre. Una statua in marmo rosa raffigurava minuziosamente la giovane, splendida com’era stata prima della malattia. Imponente e maestosa si ergeva al centro esatto del cortile della chiesa, circondata da salici e abeti, piangenti anch’essi, l’unica macchia di colore immersa nel bianco delle altre tombe che attirava gli sguardi dei più curiosi. Ai suoi piedi un crocifisso e una falce, per ricordare ogni giorno al monaco della danza che si era svolta quell’ultima sera. Un valzer tra dio e la morte, una guerra persa in partenza. Lui, unico reduce. Come un arto amputato, sentiva che qualcosa mancava, ma purtroppo non ne aveva più memoria. La memoria del dolore. Solamente guardando la statua in mezzo al cortile, qualcosa di tanto in tanto riaffiorava nella sua mente, prima di sparire di nuovo. Che signora crudele, la Morte, che si porta via persino il piacere del dolore, con il tempo, e lascia il vuoto al suo posto. Macerie e polvere. Così ogni sera a mezzanotte, l’ora delle streghe, quando la nebbia calava sulle lapidi e sui suoi occhi, lui si nascondeva dietro alla statua di Dafne e indossava l’unica maschera che l’aveva salvata. Diventando Morte si sentiva vicino a lei come non lo era mai stato, nemmeno in vita. Il suo debito con la grande Signora lo estingueva così, da Caronte moderno, accompagnando le anime spente che si divertivano ancora a vagare sulla terra. Non per dar loro pace, ma per offrirgli un posto speciale in quel cielo cimitero e alleviare le loro colpe attraverso i suoi racconti. Poiché santo, concedeva loro la sua compagnia. Re dei morti e cantastorie. Vedovo e padre. Un corpo senza forma né memoria, senza senso, risorto per essere venerato, da sé stesso. Santo. Aveva smesso di credere in Dio quella sera, stringendo tra le braccia, per la prima volta, il suo amore proibito, ormai perduto. E avrebbe baciato ogni angolo di quella chiesa e di quel mondo se avesse potuto, solo per dare un senso ad ogni cosa, per dare un senso a quella morte insensata. Per ricordare ciò che non ricordava più e che non sapeva di voler ricordare. Nessun amico o parente. Solo al mondo, un mondo che un tempo gli apparteneva ma che ora non vedeva più. Con la nebbia calata sugli occhi, sul cuore e in quel cielo cimitero. Così triste. Strinse ancora di più la corda in vita finché non si sentì soffocare e aspirava e soffocava. A terra con le ginocchia sporche e le mani nel fango sprofondava sempre di più. Gli sarebbe bastato un piccolo segno, affinché tutto quel sacrificio avesse senso. Tutto quel dolore ingiustificato. Le cicatrici bruciavano ancora. Ma il silenzio lo accompagnava e dopo tanti anni dio continuava a non rispondergli. Non proferiva parola da quando era arrivato alla chiesa, aveva deciso con quel fioretto di consacrare la sua vita a sé stesso. Si era battezzato da solo, in quel giardino, con quella terra bagnata, disegnandosi una croce sulla fronte.
E cadde come corpo morto cade, si era fatto Santo, da solo.
Si alzò come un uomo nuovo. Un uomo ancora confuso, ma rinato. Prese la difficile decisione di non aspettare più che dio venisse da lui. Aveva deciso di perdere ogni speranza e lasciarsi andare, era una battaglia interiore che andava avanti da troppo tempo. Si era consacrato a sé stesso quel giorno e aveva giurato che il suo cammino sarebbe stato il cammino di tutti. Un uomo solo avrebbe cambiato la vita di tanti. Perché dio era morto e la Morte avrebbe creato un nuovo Dio. Un Dio buono, capace di ascoltare, di ricordare. Aveva vagato di città in città, ma si era sempre sentito come un seme arido, incapace di germogliare e mettere radici. La morte di Dafne gli aveva tolto la gentilezza, la morte di dio la speranza. Un monaco perso, senza fede. La violenza alla quale aveva assistito nella sua lunga e insignificante esistenza lo aveva reso sterile e la crociata per cui dio lo aveva creato, per cui si era creato da solo, una guerra di pace, non trovava alcun luogo dove attecchire. Così, da seme arido, incapace di dare vita, Apharel si era chiuso nel silenzio e un luogo dove germogliare lo aveva trovato, in quel cielo cimitero. Così triste. Chiuso nel silenzio, fattosi santo, da solo, decise che se dio non esisteva, l’avrebbe creato lui. Vuoto e senza forma, il monaco era facile da plasmare, e molti altri sarebbero arrivati e lui, poiché santo, li avrebbe creati a sua immagine e somiglianza. Dio, in terra, risorto ancora una volta, per sé stesso. Santo. Aprì le braccia per accogliere il futuro che lo aspettava, con in mano la croce e il bastone, sintesi della sua esistenza e sulla testa, una corona di spine e rose bianche. Benedisse quel cielo cimitero con le sue lacrime e il suo sangue, e urlò a pieni polmoni e urlò di nuovo, tutto il suo dolore, finalmente libero. Ruppe per sempre il suo silenzio e diede inizio alla sua crociata. Per cui il cammino di un uomo diventò il cammino di tutti, una guerra santa, contro dio, in nome di una donna dai capelli lunghi e corvini. Novantotto, novantanove, cento.
"Amen"
Valzer con la Morte testo di Astrea