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Da bambina non avevo specchi in casa. Mia madre li aveva coperti con lenzuola logore, diceva che portavano sfortuna. Io crescevo senza poter fissare il mio volto, solo il soffitto della stanza, i muri screpolati, i rumori della notte. Eppure dentro di me sapevo che qualcosa mi guardava: una creatura, invisibile, che respirava con me.
Mio padre tornava ubriaco, con occhi di fiamma, e urlava parole che tagliavano più delle mani. Mia madre, invece, era assente: c’era ma non c’era, come una statua che respira appena. Allora restavo sola con la febbre, con la paura, con quella creatura che sentivo crescere nella mia testa. Non erano capelli, erano pensieri che sibilavano, domande che si muovevano, serpenti di parole che non riuscivo a fermare.
Un giorno, a scuola, una compagna mi chiamò “Medusa”. Diceva che il mio sguardo era troppo duro, che chi mi fissava rimaneva pietrificato dal silenzio che portavo addosso. Io arrossii, ma dentro di me compresi: quello ero io. Io ero Medusa, la bambina che trasformava il dolore in pietra, che non poteva essere ferita senza ferire a sua volta.
Così ho preso quel nome e l’ho tenuto come corazza. Medusa non è un mostro, è una bambina lasciata sola che imparò a difendersi. I miei serpenti non mordono, sussurrano. Sono la mia febbre che non mi ha mai lasciata, il mio dolore che si muove ancora, ma che adesso scrive.
Io mi chiamo Medusa perché da piccola ho imparato a guardare il mondo senza specchi, e a sopravvivere trasformando la mia paura in mito.