Tu l'amavi - (Rivisto e corretto)

scritto da Nigthafter
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"Tu lo amavi." Aveva detto. Tre parole, quasi il riverbero di un pensiero.
- Nota dell'autore Nigthafter

Testo: Tu l'amavi - (Rivisto e corretto)
di Nigthafter

Tu l'amavi

Stavo seduto sul pavimento, nel corrdoio del secondo piano del mio liceo.
La schiena alla parete di fronte alla classe, le gambe raccolte tra le braccia con le ginocchia che puntavano il petto.
Avevo i libri legati con una cinghia elastica e la mia sacca etnica posati al fianco.
Fumavo, attendendo le otto e trenta per l'inizio della lezione: mi aspettavano due ore di "Ornato" quel mattino.
Dal finestrone in angolo vedevo la guglia del campanile di San Carlo Borromeo, una delle due chiese barocche affacciate sulla vicina piazza San Carlo, sulle cui fiancate si incanalava il tratto della via Roma che partiva dalla vicina piazza Carlo Felice proseguendo in direzione di Palazzo Reale.
Nembi intinti nel piombo riempivano lo specchio di cielo più in alto: promessa di pioggia imminente.
I compagni iniziavano a giungere alla spicciolata: alcuni con la faccia ancora assonnata e altri con l'aria vagamente inebetita di chi aveva fatto colazione con una canna già a quell'ora.
Certi entravano direttamente in classe, altri si attardavano a fumare l'ultima sigaretta e spartirsi un po' di cazzeggio in attesa della campanella.
Io, stretto nelle braccia, sentivo freddo, a dispetto dello spesso pullover norvegese che indossavo.
Era da diverso tempo che il freddo mi accompagnava ovunque, incurante delle reali temperature dell'ambiente.
La notte dormivo male e facevo sogni strambi, il giorno sembravo rincoglionito: scintille bianche danzavano nel campo visivo quando serravo gli occhi, era probabile che soffrissi di pressione bassa.
Quella mattina era peggio del solito, stavo di merda e non avevo testa per disegnare.
Ero al secondo anno di liceo artistico, lo ripetevo in quella sede perché l'anno precedente, nella sede di piazza Omero, mi avevano stangato per le troppe assenze e un po' di casini che avevo combinato.
Per la prima volta mi sentivo estraneo a quella scuola, che pure avevo scelto per la passione verso le materie insegnate e per la naturale predisposizione al disegno figurativo, talento che avevo mostrato fin da piccolo.
Ora tutto mi appariva vuoto e insignificante, senza scopo.
Seguire le lezioni mi risultava faticoso, avevo difficoltà a concentrarmi.
Le nozioni mi scivolavano nella mente, scorrendo senza lasciare sedimento, come in uno scolo d'acqua piovana.
Mi sarei intanato volentieri in qualche bar della via Po a far evaporare i pensieri al profumo del caffè, a cercare conforto all'umore in un cappuccino macchiato di polvere di cacao.

Giunse Laura, la più gnocca della classe, una compagna verso cui ero legato da una buona amicizia e comuni ideali di vita.
Mi salutò con un sorriso morbido, come il casco biondo di capelli che le riempiva il cappuccio dell'Eskimo.
Posò la sacca dei libri accanto alla mia e sedette al mio fianco incrociando le gambe.
La mini in pelle scamosciata le salì lungo le lunghe cosce; portava spessi collant intonati alla gonna che toglievano la tentazione di sbirciare verso la sua biancheria intima.
In compenso aveva i primo bottoni della camicetta aperti sul petto, lasciando in vista una gradevole porzione di quel generoso dono naturale.
Aveva modi spicci Laura e una personalità vitale e debordante, possedeva la trasparenza interiore di un cristallo, con una schiettezza di modi prossima alla brutalità.
Non si faceva problemi a esporre parti seducenti di sé, fino ad apparire erroneamente priva di pudore.
In realtà era sicura di sé e se ne fregava, riteneva il proprio corpo irrilevante rispetto alla propria mente, la sua bellezza un accidente marginale che talvolta le risultava anche molesto.
Mi chiese una sigaretta, le porsi il pacchetto e l'accendino.
- Come ti va? - chiese.
- Non bene, grazie. Anzi, a dirla tutta proprio di merda. - risposi.
Mi sorrise, ricambiai il sorriso, tirò una boccata, poi fissando il cielo livido, oltre la finestra chiese: - Senti il tempo o sei in paranoia?
- Tu che dici? - risposi con un sorriso da due novembre.
- È per Giulio? - chiese come parlasse a sé stessa - Lo so, ti manca. - sussurrò poi in un soffio.
La campanella echeggiò nel corridoio, i ragazzi raccolsero le loro cose e si trascinarono verso la porta dell'aula.
Lei drizzò le gambe sollevandosi da terra, si stirò per sgranchirle, poi, mentre si avviava, aggiunse con tono malinconico: - Tu lo amavi. Ti manca per questo. Perché hai perduto un amore.
Lo disse a bassa voce, come fosse un pensiero fra sé.
Mentre andava, mi arruffò i capelli con una carezza delicata e fraterna.
Io rimasi seduto senza seguire i compagni di classe.
"Tu lo amavi." Aveva detto. Tre parole, quasi il riverbero di un pensiero.
Così semplice da formulare: un indicativo imperfetto nella declinazione di un verbo.
Una frase di disarmante banalità. Ma io non l'avevo mai pensata.
Indicava qualcosa di passato, quando il tempo scorreva nelle nostre mani e tutto era ancora possibile.
Ora il tempo era finito, restava un ricordo alle nostre spalle e il rimpianto per il non detto.

Lacrime che non sapevo più di possedere esplosero irrefrenabili.
Violente e disperate come la pioggia che iniziava a tempestare i vetri al di là della finestra.
Lacrime pure come quelle infantili, come nel bimbo smarrito dalla madre nella folla.
Nulla arrestava quel dolore, quel male troppo a lungo trattenuto.
Con la testa affossata tra le ginocchia singhiozzavo incurante del luogo e del momento, dei commenti di chi, passando, nulla poteva sapere.
"Tu lo amavi." Aveva detto, un flebile soffio sull'effimero equilibrio di un castello di carte, che era franato dentro di me senza rumore.
Da tempo dentro me si era formata una crosta dura, un grumo pietrificato di dolore.
Una pietra cruda, solida, essiccata nel fondo dell'anima, ma che ancora bruciava a ogni respiro, come una ferita che non rimargina.
Quanto male possiamo affrontare nella nostra vita?
Cosa accade quando esauriamo in un'unica sola volta la nostra intera porzione di dolore?
Diveniamo aridi e inerti come rami secchi nel glaciale inverno.
Così in quella stagione ostile per l'anima mi ero chiuso in un torpore anestetico, vivendo, vegetando senza più esistere.
Non comprendi il reale valore del sole, il suo vitale calore, fino a quando d'improvviso ti ritrovi a camminare nel buio e nel freddo.
Invidi nei ciechi la loro naturale intimità con la notte.

Quando le stelle muoiono divengono buchi neri, voragini che ingoiano galassie; una parte d'universo si dissolve nel silenzio.
Il mondo per me aveva ormai smesso i colori.
In quel malessere cupo avevo messo in fila, come soldatini ordinati e tristi, i miei giorni di lutto.
Giulio se ne era andato senza un saluto una sera di gennaio.
Senza un preavviso, un segno, una parola.
Aveva deciso e l'aveva fatto per rispondere a una ragione chiusa nella sua mente; a me e al resto del mondo era rimasto il compito di comprendere quale fosse.
Se ne era andato da solo, di notte in una soffitta gelata, con la neve che stendeva una coperta candida sulle tegole sconnesse del tetto.
Se ne era andato come sempre era vissuto: autonomo e bastante a sé. Andandosene si era portato via le nostre illusioni di gioventù e i progetti comuni di futuro: il nostro mistico sogno di un viaggio in India.
Gli ideali di giustizia e uguaglianza fra gli uomini, i testi delle canzoni che io scrivevo per diletto e lui vestiva di accordi, sentendoci simili ai cantautori che amavamo.
Aveva portato con sé le nostre risate, l'incoscienza irridente nel prenderci gioco di una vita che ci voleva seri e contegnosi, bruciando l'ultima stagione della nostra giovinezza.
Ero suo fratello. Un fratello non biologico, ma forse per questo maggiormente vicino.
Ridevamo, quando forandoci un polpastrello avevamo mischiato il nostro sangue: il patto di un giuramento di fratellanza eterna, come avveniva tra antichi guerrieri.

Ora ero offeso con lui come per un tradimento, ero insofferente del mondo divenuto inutile e stretto da mozzare il respiro.
Ero rancoroso verso un Dio muto e indifferente, lontano e cieco al dolore degli uomini, alieno come un astro di ghiaccio siderale.
Gli uomini sono stupidi: inventano parole per definire sentimenti profondi, poi le vestono di tabù, per timore di usarle.
Amore: quanti significati diamo a questo termine? Ci sono persone intime e care alle quali ci lega un profondo e indissolubile sentimento d'amore, ma non osiamo chiamarle con questo nome.
Mia madre, mio padre, mia sorella: certamente li amavo, eppure non li avevo mai chiamati amore, ricorrevo per loro a parole più neutre e timide, come un "ti voglio bene".
Perché la parola amore restava quasi univocamente confinata a ciò che legava una coppia di amanti.
Ma un sentimento tra due uomini, forse più intenso di quello fraterno, non si poteva definire con questo termine, perché sarebbe apparso ambiguo, anche se non se ne troverebbe uno più adatto a significare ciò che era.
I maschi non possono chiamare ciò che sentono l'uno per l'altro con questa parola, senza temere di apparire deboli, ridicoli, od omosessuali.
E io, che professavo la mia totale apertura mentale, reputandomi evoluto e anticonformista, ero il primo a censurare quel termine riferendolo a un maschio, temendo l'equivoco che temevo avrebbe potuto generare.
Ora mi era chiaro il senso del vuoto di cui non riuscivo a liberarmi: era lo spazio che lascia un amore perduto.

Il docente di Ornato era giunto, si iniziava la lezione. Vedendomi in quell'angolo, gettato come uno straccio bagnato, si accostò con premura chiedendomi se mi sentissi male, o ci fosse qualche serio problema. Alzai la testa per rassicurarlo.
Tutto andava bene, non mi occorreva nulla.
Lo ringraziai e dissi che avevo bisogno di restare lì ancora un poco, sarei entrato all'ora successiva.
Mi diede, con un gesto gentile, un piccolo buffetto sulla spalla, poi si diresse verso la classe, chiudendosi dietro la porta.
Giulio mi aveva lasciato i versi di una sua vecchia canzone.
Sembrava una stupida canzone, era invece una profezia a ritmo di bossa nova.
Giulio se ne era andato.
Io ero rimasto, senza riuscire a lasciarlo andare.

Tu l'amavi - (Rivisto e corretto) testo di Nigthafter
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