Cronaca di una notte in nosocomio

scritto da Tommmy
Scritto 3 anni fa • Pubblicato 3 anni fa • Revisionato 3 anni fa
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Autore del testo Tommmy

Testo: Cronaca di una notte in nosocomio
di Tommmy

Lunedì 12 dicembre 2022
La giornata inizia male, è lunedì, e già questo di per sé potrebbe bastare, si sa il rientro al lavoro dopo il weekend è sempre un po’ traumatico. Ma questo lunedì inizia peggio di tutti gli altri, mi sveglio alle 4 del mattino con una tosse che non mi lascia dormire. Probabilmente a svegliarmi è stata un’auto nei garage, pronta a portare il proprietario al lavoro. “Beato lui, oggi va al lavoro”, penso. Mai avrei creduto di pensare una cosa del genere…
Fatto sta, da quel momento non riesco più ad addormentarmi, continuo a girarmi e rigirarmi nel letto, tra un colpo di tosse e l’altro. Dopo più di un’ora, ormai rassegnato a dover rimaner sveglio, prendo il libro sul comodino, un thriller di Michael Connelly. Leggere mi aiuta un po’, almeno mi distrae. Nel frattempo rumori di camion della nettezza urbana e auto che passano lungo la strada dietro casa mi fanno capire che il lunedì è già pronto a partire, io no.
Anche se la tosse non accenna a smettere, la lettura mi fa assopire per qualche minuto, poi però arriva il suono della sveglia, programmata alle 7:18, per tutta la settimana lavorativa. Ma oggi forse non è il caso di andare al lavoro, con questa tosse in tempi di Covid-19 i colleghi mi guarderebbero come un untore. Anche no.
Aspetto l’orario di apertura degli uffici dell’azienda dove lavoro da diversi anni, comunico i sintomi e avviso che oggi non mi vedranno.
A circa metà mattinata decido di fare un test rapido, di quelli fai da te, per escludere che sia Covid. Anche se la sola tosse unita ad un lieve mal di gola nei giorni precedenti mi fa stare tranquillo. Dopo poco più del quarto d’ora indicato nelle istruzioni, guardo l’esito del tampone: negativo.
A questo punto posso chiamare il mio medico, o meglio, la segreteria del medico. Dopo più di dieci minuti di attesa, riesco a spiegare ad una segretaria i miei sintomi riferendo che ho già fatto un tampone che ha dato esito negativo. Dice che mi farà richiamare dal mio medico, che effettivamente dopo quasi due ore mi richiama. Gli spiego come sto e gli chiedo se, essendo negativo al Covid, l’indomani potrò tornare al lavoro. Col senno di poi mi rendo conto che ero stato un po’ troppo ottimista, pensavo fosse solo un po’ di tosse, quella che da bambino curavi con un po’ di sciroppo e che nel giro di qualche giorno se ne andava senza lasciare strascichi. Lui dice che almeno un paio di giorni sarebbe meglio se li facessi a casa a riposo e mi prescrive alcuni farmaci.
Ormai è giunta l’ora di pranzo, menù del giorno cotolette di pollo impanate con contorno di piselli. Mangio e mi trasferisco sul divano per l’amata pennichella pomeridiana. Lavoro permettendo me la concedo sempre ma quella di oggi non è delle migliori: la tosse non mi fa star tranquillo.
Decido di muovermi, prendo l’auto e vado in farmacia a prendere le medicine prescritte dal medico e successivamente a fare un po’ di spesa per la settimana.
Noto che nonostante la tosse persista, il respiro è più fluido quando sto in piedi o cammino. È per questo che guardando la TV sul divano, di tanto in tanto, mi alzo per fare delle “passeggiate” nel salotto. No, non sono pazzo… anche se considerate le dimensioni del mio appartamento, di fatto le passeggiate si traducono in circumnavigazioni del divano. Quindi sì, se qualcuno potesse vedermi in queste circostanze mi darebbe del pazzo.
Non ho tanto appetito, mangiucchio qua e là, senza imbastire una vera e propria cena.
La nota positiva del lunedì, è che in prima serata (chissà perché la chiamano ancora così, visto che oramai inizia quando i comuni mortali o crollano sul divano o sono già direttamente a letto) c’è la mia serie TV preferita. Questa sera trasmettono gli ultimi due episodi dell’ultima stagione. La guardo con un misto di “ah, che ben” e sofferenza per il respiro che si fa sempre più affannoso. Sempre più spesso mi alzo per camminare attorno al divano e trovare un po’ di momentaneo sollievo. La fiction finisce, non senza colpi di scena, così posso andare a letto sperando di riuscire a dormire e che i farmaci inizino a far effetto.
Ma appena mi corico, la difficoltà a respirare si fa tale che iniziano ad aleggiare in me brutte sensazioni. Mi dico “Non è normale”. Ammesso che riesca ad addormentarmi, per la prima volta penso che potrei anche non svegliarmi più.
Non posso stare qui inerme, devo fare qualcosa. Mi rivesto in velocità, prendo l’auto e alle 23:30 sono davanti alla Guardia Medica. Mi accoglie un giovane medico, gli spiego della tosse e della difficoltà respiratoria. Subito mi fa infilare l’indice della mano destra in un “aggeggio” che fino a qui avevo visto nei film o nei centri trasfusionali quando vado a fare donazioni di sangue, ma senza soffermarmi sulla sua utilità e su come vadano interpretati i numeri che escono sul display.
È un saturimetro, serve a monitorare la percentuale di saturazione di ossigeno nei polmoni. Il valore è ottimale fino al 97%, in alcuni casi anche qualche punto in meno.
Io al momento ce l’ho attorno al 90%, così il medico prova a spostare il saturimetro nell’altra mano che è un po’ meno fredda, ma la musica non cambia. Quindi mi fa mettere sul lettino, mi fa scoprire la schiena e con lo stetoscopio mi ascolta i polmoni. Non so cosa senta lui, io sento dei sibili intervallati a forti scariche di tosse. Posso rivestirmi, mi controlla nuovamente la saturazione. A questo punto mi dice che i dati rilevati dal saturimetro lo preoccupano un poco, che secondo lui sarebbe meglio fare una lastra ai polmoni e quindi mi consiglia di recarmi al Pronto Soccorso.
Esco, fuori fa un freddo cane, la temperatura sotto lo zero termico, salgo nuovamente in auto e mi dirigo verso l’ospedale. A quest’ora, di lunedì, non ci sono auto in giro e in una decina di minuti raggiungo il PS, parcheggio nell’ultimo posto disponibile senza preoccuparmi del fatto che servirebbe il disco orario, per un massimo di 180 minuti. Chissà in quanti saranno riusciti ad entrare e ad uscire dal Pronto Soccorso in quella finestra di tempo…
Entro, sono spaesato, per mia fortuna è la prima volta che ci vado e non sono pratico. C’è uno sportello con una grande insegna “Accettazione” e poi un sacco di gente seduta che aspetta il proprio turno. In piedi c’è una persona davanti allo sportello di accettazione, poi ci sono io. Arriva velocemente il mio turno, spiego che ho difficoltà respiratorie e che sono lì su consiglio della Guardia Medica. La persona preposta all’accettazione, quella che ha il compito di attribuire il colore che determina la gravità della situazione dei pazienti mi fa subito accomodare in una saletta adiacente, mi fa sedere nel lettino e anche lui mi ascolta i polmoni, poi mi da un ticket con il mio numero, che dovrò monitorare sui display in sala d’attesa.
Mi accomodo su una sedia, la più isolata possibile, qualunque cosa abbia, non voglio infettare nessuno. Tempo una manciata di minuti e un’infermiera arriva dal corridoio verso la sala d’attesa chiamando a voce alta il mio numero, “389”. Ho sempre sentito dire, che al PS ci sono attese di ore prima di essere vistati, io con circa una trentina di persone davanti a me entro dopo pochi minuti. “Cavolo! Dev’essere più grave di quello che pensavo.”
L’infermiera mi fa accomodare in una sala con alcuni lettini e davanti una postazione con pc e macchinari vari. Mi fanno stendere su un lettino e da qui iniziano i primi esami con conseguenti punture e un tampone rapido antigenico. Poco dopo arriva una dottoressa che mi chiede cos’è successo, così racconto per l’ennesima volta di esser passato dall’aver un po’ di tosse al non riuscire a respirare, sempre in assenza di febbre. Nel frattempo ecco l’esito del tampone: POSITIVO. La dottoressa commenta così: “Ce l’avevi scritto in fronte.”
Da qui il trasferimento al reparto nella sala accanto, il cosiddetto Pronto Soccorso Covid.
I letti, quattro o cinque, sono già tutti occupati così mi posizionano su una poltrona. Vista la bassa percentuale di saturazione un’infermiera mi mette al naso uno di quei tubicini che si vedono nei film, servono ad erogare ossigeno e, lo scoprirò successivamente, in gergo vengono chiamati “occhialini”.
Con gli occhialini sembra andare un po’ meglio, la respirazione è meno affannosa, ma non abbastanza da farmi dormire. Ormai è l’una passata e ne avrei un gran bisogno ma non c’è verso, appena provo a chiudere gli occhi ho la sensazione che mi manchi il respiro. Poi il rumore delle coperte degli altri pazienti non aiuta. Sì, il rumore delle coperte. Perché oltre alle coperte classiche, per chi ha ancora freddo, ci sono quelle coperte dorate da un lato e argentate dall’altro, quelle che si usano nelle emergenze e che ti fanno vedere nei corsi per la sicurezza e di primo soccorso. Sono ottime, scaldano tanto, occupano poco spazio, ma fanno un chiasso del demonio.
Dopo un po’ la dottoressa dispone di farmi una TAC al torace, per vedere come stanno i polmoni, vista la difficoltà respiratoria. Così scivolo dalla poltrona ad una sedia a rotelle e una infermiera mi fa fare un giro passando attraverso alcuni corridoi fino ad arrivare in questa sala divisa in due: da una parte la sala controllo, dall’altra un lettino mobile che si infila all’interno di questo grande macchinario che ricorda un tunnel autostradale, solo molto più stretto. L’addetto alle TAC mi fa togliere la felpa della tuta, per via della zip metallica, e mi fa sdraiare sul lettino rassicurandomi: “Durerà poco.”
Quando parte il nastro che fa scivolare il lettino all’interno del tunnel, chiudo gli occhi, tendenzialmente non soffro di claustrofobia ma entrare in una cavità così angusta non mi fa di certo impazzire. Una volta dentro sento una voce metallica che dà le direttive: “Fate un bel respiro”, “Trattenete il respiro”, “Rilassatevi”. Dura un paio di minuti, a parte la quantità di radiazioni che mi hanno pervaso il corpo, non è andata così male, pensavo peggio.
Si torna in reparto, i pazienti sono gli stessi, io sono di gran lunga il più giovane.
C’è una signora molto anziana che per lo più dorme, che dev’essere caduta perché ha degli evidenti lividi e che quando viene toccata al braccio destro si lamenta sonoramente in un chiaro stato di sofferenza. Questa signora chiama “amore” chiunque: dall’infermiera che le misura la febbre e la riporta in posizione più o meno eretta, alla dottoressa che le chiede come sta, al collega che la sistema sul letto per farle una radiografia con la macchina RX mobile.
Poi c’è un signore con la polmonite, che dev’essere qui da qualche giorno e che deve essere caduto anche lui perché ha un’escoriazione alla gamba sinistra. Anche se, dal suo punto di vista, non è caduto è solo che: “Non riuscivo ad alzarmi, la forza di gravità è stata più forte di me.” Anche lui dorme parecchio, nonostante continui a girarsi e rigirarsi nel letto, facendo così un gran rumore con quella coperta metallica.
Poi c’è un altro signore anziano, dorme molto anche lui senza lamentarsi, la cui unica preoccupazione è quella di andare a fare la dialisi.
E poi c’è un altro signore, arrivato poco dopo di me, sbarellato direttamente in reparto dagli operatori dell’ambulanza. È in stato confusionale, deve aver la febbre alta o forse ha battuto la testa nella caduta: prima dice di essere caduto, poi dice di no, poi dice che è caduta la moglie anche se quello che credo essere suo figlio conferma la prima ipotesi. Tutto sommato però adesso è tranquillo e riesce a dormire.
Dormono tutti, tranne me.
Il tempo sembra non passare mai. Allungandomi sulla poltrona, attraverso la macchina che eroga ossigeno e misura la saturazione e le sagome degli altri pazienti, vedo che sopra la porta scorrevole c’è un orologio. Bene, così non devo continuare a guardare lo smartphone per vedere che ora è.
Nel frattempo un’infermiera che è riuscita a recuperare una barella mi fa spostare dalla poltrona, così magari stendendomi riesco a chiuder occhio.
Ma è inutile, non riesco a dormire. Non so che fare. Mi guardo attorno, ma dove sono finito? Ho il tempo per studiare la sala, osservare i macchinari, i pazienti, infermieri e dottori. Penso. Penso che responsabilmente dovrei avvertire i miei ultimi contatti, soprattutto gli amici con cui sono stato a cena sabato, dovrei avvisarli che sono positivo al Covid, ma non voglio farlo ora, è notte fonda e non voglio allarmare né disturbare nessuno. Così mi do degli orari: agli amici che so per certo si svegliano prestano o tengono il telefono spento di notte, posso scrivere verso le 5, agli altri verso le 6, ai miei genitori che non lavorano più e che quindi non si alzano certamente così presto scriverò dopo le 7. L’idea iniziale era di non scrivere a nessuno prima delle 6, ma la notte qui è interminabile, così ho deciso di anticipare per alcuni contatti, almeno resto impegnato qualche minuto.
C’è un paziente che vaneggia nel sonno, un altro che si lamenta perché non si pranza, evidentemente non ha contezza dell’ora, e così in qualche modo si fanno le 5. Possono così partire i primi messaggi WhatsApp: “Scusate l’orario, ma visto che sabato siamo stati insieme, vi avviso che da stanotte sono ufficialmente positivo al Covid.”
Sono stanco, vorrei dormire ma non ci riesco. Quando mi stendo nella barella, faccio più fatica a respirare, così mi metto seduto, poi riprovo a stendermi, poi mi rimetto seduto e avanti così, praticamente tutta la notte.
In un modo o nell’altro sono arrivate le 6, dev’essere l’ora del cambio turno perché c’è un qualche movimento, cambiano le facce degli infermieri e dei dottori. Bene, almeno ho un nuovo passatempo: osservare i nuovi arrivati.
Ma da qui in avanti va sempre peggio. Non per me, io sono stabile, non riesco a dormire ma almeno con l’aiuto degli occhialini respiro, e comunque mi sento in buone mani. Il problema è a livello di reparto, continuano ad arrivare nuovi pazienti, la maggior parte con l’ambulanza. Le infermiere e i medici non sanno più dove mettere i malati e ogni volta che sentono arrivare un’ambulanza pregano perché sopra non ci sia l’ennesimo caso Covid.
Sono l’unico che non dorme, l’unico che passa più tempo da seduto che sdraiato sulla barella. Probabilmente gli infermieri, che di notte stazionano nella stanza accanto ma che periodicamente passano per il corridoio e buttano l’occhio per accertarsi che vada tutto bene, l’hanno notato. Così un’infermiera viene a chiedermi come sto, le rispondo che non riesco a dormire e che sto meglio da seduto. Se ne va. Poco dopo arriva un altro infermiere che mi somministra un aerosol.
No, non quello che ti davano da piccolo e che odiavi profondamente. O meglio, per quanto ne so, potrebbe esserci il medesimo farmaco, ma stavolta lo faccio ben più che volentieri. In pochissimo tempo ne traggo beneficio, tanto che per la prima volta da quando sono entrato in PS riesco ad addormentarmi.
Saranno le 7 passate da poco, per la prima volta riesco a chiuder occhio, e dopo pochi minuti l’infermiere mi sveglia, facendomi notare che l’aerosol funziona meglio se sto seduto.
“Ma allora ce l’avete con me… Che ho fatto di male per meritare questo??”
Provo a tirarmi su in posizione eretta. Resisto pochi minuti, gli effetti benefici dell’aerosol sommati alle vicissitudini di una notte insonne ed impegnativa mi fanno crollare. Sono esausto e mi riaddormento in un attimo.
Dormo poco più di un’ora, ma va già meglio. Al risveglio sono più riposato e il respiro è più fluido e spontaneo. Nel frattempo l’aerosol è finito, sono tornato agli occhialini con l’ossigeno. Ogni tanto la dottoressa del turno giornaliero me li toglie per vedere come va senza ausilio, ma la saturazione scende immediatamente e così me li fa rimettere.
Non sono ancora le 9 e rivedo la dottoressa che mi aveva preso in carico all’inizio e che mi aveva comunicato la positività al Covid. Mi dice che i risultati degli esami fatti rispecchiano le sensazioni e i problemi che le avevo raccontato e che l’esito della TAC non spiega la difficoltà respiratoria, soprattutto per un uomo della mia età. Quindi mi propone di farne un’altra, stavolta con metodo di contrasto, per escludere eventuali embolie polmonari.
“Bene”, penso, “sono entrato credendo di avere una tosse particolarmente forte, poi sono passato al Covid e adesso viene fuori che potrei avere un’embolia polmonare?” Mi pare di essere uno di quei casi del Dr. House…
Mi chiede il consenso, perché la TAC con contrasto include dei rischi, seppur superabili per un uomo di quarant’anni. Do il consenso, un po’ preoccupato, più per il possibile esito che per gli eventuali effetti collaterali della procedura.
Apprendo poco dopo che la sala TAC è disponibile, tuttavia passeranno circa un paio d’ore prima che un’infermiera trovi il tempo di accompagnarmici, tale è l’intasamento del reparto. Altra TAC, altro operatore, che con molto zelo mi anticipa le sensazioni che potrei provare nel momento dell’aggiunta del liquido di contrasto: senso di calore, possibile gusto amaro in bocca e sensazione di dover andare in bagno. Nulla di diverso da quello che effettivamente ho sentito. Probabilmente senza spoiler ci si potrebbe anche allarmare, ma sapendo cosa aspettarsi, non c’è motivo per farsi prendere dall’agitazione. Dopotutto anche stavolta è andata meglio di quanto pensassi. Ma adesso attendo il risultato, con un po’ di ansia.
Al mio ritorno in reparto le cose non sono cambiate, tutt’altro. Gli infermieri costretti a giocare a tetris con i letti, le barelle, le poltrone, i vari macchinari per riuscire ad incastrare tutti i pazienti Covid, che continuano ad aumentare. Oltre alla mancanza di letti, fisicamente non c’è più spazio. Un’infermiera, con tono sconsolato, dice: “Tra un po’ dovremo metterli in corridoio…”
Tra gli ultimi arrivati c’è una signora accompagnata dalla figlia, che lamenta un forte dolore agli occhi causato da congiuntivite. Ce l’ha da diversi giorni e probabilmente se il suo medico l’avesse visitata, le avrebbe prescritto un qualche collirio o qualche altro tipo di cura e adesso non sarebbe qui. Ma siccome è positiva al Covid, meglio non rischiare e così eccola qua direttamente al PS.
Poi c’è un ragazzo non ancora maggiorenne, immunodepresso per via di un trapianto, accompagnato dalla madre. Vedendolo non sembra stare così male, ma vista la sua fragilità, gli è stato consigliato di recarsi subito in PS in caso di febbre alta, e stanotte ce l’aveva a 39°. Sta studiando per diventare OSS, così finchè l’infermiera gli fa punture e tutto il resto per gli esami di routine, lui la “interroga” puntigliosamente sul cosa stia facendo.
C’è chi ha bisogno di essere accompagnato ai servizi, chi invece ha il pannolone e quindi necessità di essere pulito e cambiato. Poi c’è chi ha fame e sete, ma questo non è un ristorante. Oltretutto per fare certe tipologie di esami occorre essere a digiuno. Viste le molteplici e insistenti richieste, un’infermiera si prende carico di andare personalmente a prendere un bicchiere di tè caldo a chi lo desideri. Non so bene se rientri tra le sue competenze o se sia andata a prenderli al distributore utilizzato dagli addetti ai lavori per rifocillarsi, a sue spese. Importa poco, il gesto è sicuramente encomiabile ed è stato, almeno da me, molto apprezzato.
Finalmente arriva l’esito della TAC, la dottoressa mi riferisce che non c’è embolia polmonare e nemmeno polmonite, fiuuu… A questo, vedendo che comunque la percentuale di saturazione senza ossigenoterapia non è ottimale, mi prescrive un altro aerosol, visto che stamattina aveva funzionato alla grande. Faccio quest’altro aerosol e una volta concluso si vede che ora la saturazione si è attesta su livelli accettabili anche senza occhialini. Così la dottoressa mi propone di tenere monitorata la situazione e più tardi di fare un “walking test” per vedere se sotto sforzo le cose cambiano.
È passato un po’ di tempo, complice anche l’enorme mole di lavoro che infermieri e dottori devono sorbirsi, ma finalmente la dottoressa mi consegna un saturimetro portatile e mi inviata a “passeggiare” tenendo sotto controllo i valori di saturazione. Devo camminare su e giù per il corridoio per cinque minuti.
Spero con tutto me stesso che il saturimetro non faccia scherzi, se i valori restano buoni forse posso tornarmene a casa. Voglio andarmene da questo inferno! È stata la notte più lunga della mia vita.
I cinque minuti sono passati, io mi sento bene e anche i numeri che escono sul display lo confermano, così torno dalla dottoressa e incrocio le dita. Anche lei è d’accordo, i valori sono buoni, così mi propone di dimettermi a patto di continuare la terapia a base di aerosol a casa. Accetto senza pensarci un secondo.
Sono le 14:20 e posso finalmente tornarmene a casa.
Me ne vado con la consapevolezza che, anche se è una frase fatta, la salute è la cosa più importante. La conferma che il Covid è una brutta bestia, perché quando iniziavo a pensare che questo virus fosse diventato come un banale raffreddore, ho visto che in meno di 24 ore mi ha fatto passare dall’avere un po’ di tosse al letto di un ospedale.
Ora che ho visto da vicino come lavorano, non posso che esprimere la mia gratitudine e ammirazione per tutti i medici, gli infermieri e gli OSS.
Voi siete la nostra salvezza, Vi prego non mollate, abbiamo bisogno di Voi.
Cronaca di una notte in nosocomio testo di Tommmy
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