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Mangiare per morire, morire per vivere. Il gesto quotidiano, innocuo nella sua semplicità, nasconde il dramma più grande della nostra esistenza. Il cibo si frantuma sotto i denti, scende in gola, viene accolto dal corpo con la disperazione di chi sa di aver bisogno, ma anche con la certezza di chi si condanna. Ogni cellula che si rigenera lo fa morendo, ogni energia che mi attraversa consuma le mie riserve vitali, e allora, quale senso ha prolungare questo strazio: se vivere significa uccidere lentamente il mio stesso corpo, sarebbe più logico fermarsi e lasciarlo in pace.
Mi guardo allo specchio e vedo il riflesso di un corpo che cambia, che invecchia, che si logora. Le linee sul viso che ieri non c’erano, oggi mi guardano come ferite lasciate dal tempo, incise con la precisione di un coltello invisibile. Il tempo avanza, incurante della mia volontà. Non posso fermarlo. Non posso ingannarlo. Posso solo osservarlo mentre mi trasforma, mentre mi sfida. Ogni giorno che passa è un pezzo di me che si consuma, che si allontana irrimediabilmente dal momento in cui tutto è cominciato, e allora, se il destino del mio corpo è comunque quello di spegnersi, nutrirlo serve solo a rimandare un'inevitabile disfatta.
Ma forse non è il mio corpo a temere il tempo, forse è la mia coscienza a esserne ossessionata: sono la mia carne che invecchia o sono il pensiero che si dibatte in cerca di risposte? Se il corpo è solo un involucro, la mia esistenza dovrebbe poter prescindere da esso. Dovrei potermi staccare da questa materia deperibile, smettere di alimentarla, lasciarla spegnersi mentre la mia essenza continua. Eppure, ho il sospetto che non sia così semplice: senza il corpo, la coscienza stessa potrebbe cessare di esistere. Forse siamo intrappolati in questo dualismo inscindibile: la carne muore, e con essa tutto ciò che pensavamo di essere.
Dio è morto e con lui ogni verità assoluta, urlava Nietzsche, se non esiste un senso superiore, allora ogni gesto è privo di significato, ogni scelta è un semplice atto arbitrario in un universo indifferente. Ma se così fosse, allora anche la decisione di nutrirmi non sarebbe altro che un automatismo, una sequenza priva di scopo. Eppure sento il bisogno di oppormi a questa visione, perchè se la vita è solo un incidente cosmico, allora devo darmi io un motivo per continuare. Se non esiste un senso oggettivo, almeno posso crearmene uno soggettivo, ma non è forse anche questa un’illusione? E se fosse solo un altro modo per ingannarmi, per sentirmi meno in balia di un meccanismo che non ho scelto.
L'uomo è artefice del proprio destino, dicevano i latini, ma quanto controllo ha davvero: mangiare è una scelta, vivere è una scelta, ma lo è davvero? Il corpo urla, chiede nutrimento, impone la sua volontà sulla mente. Smettere di nutrirmi non sarebbe un atto di ribellione, ma un altro modo per sottostare alle regole del mio essere. Però, anche la rinuncia è una condanna. Forse l’errore è proprio nell’idea di scelta: non si sceglie di esistere, non si sceglie di invecchiare, non si sceglie di morire. Esistere è una condizione. Invecchiare è una conseguenza. Morire è un'inevitabilità.
Forse la risposta non esiste. Forse il senso è proprio in questo eterno oscillare tra il desiderio di vivere e l’inevitabile destino della morte. Il tempo scorre, continua la sua corsa inarrestabile, e io non posso far altro che seguirlo, impotente ma consapevole. Eppure, mentre mastico l’ennesimo boccone, sento che, almeno per oggi, ho scelto ancora di stare dalla parte della vita.
Il paradosso resta, ma non mi schiaccia: mi definisce.