Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Entrare nel ventre della terra: si ha la sensazione di non esser stati invitati, che il ctonio e le sue creature nulla vogliano e nulla abbiano da spartire con chi sta in superficie. Eppure non v’è ostilità nel grande antro: torri, pinnacoli e sedute di calcare tutto sommato si dispongono in maniera accogliente, quasi scortassero chi passeggia e ne rendessero armonioso lo sfilare. Forse vi sono delle differenze nel mondo delle cavità: da un lato le molteplici forme che paiono quasi gongolare al passaggio dei visitatori, e chissà se lo fanno perché amano esser ammirate, e dall’altro gli enormi blocchi parietali, la cui origine si perde in tempi remoti, che gravano tetri e altissimi sulle nostre teste e che paiono sorvegliare la vita calcarea che brulica verso il basso.
Nell’immane sala si scivola poi verso il sottano, verso i Manes della cavità; lì si scorge un ruscello che placido se ne sta ad aspettare. Quindi si sbircia nel seno dei molti anfratti che sono rischiarati dal lume artificiale: arbitri o sensali, ci muoviamo tra le ombre che si creano e che appaiano favolose o terrificanti, a piacimento dell’occhio di chi scorge.
Presentiamo che è solo l’inizio: l’occhio si leva ovunque nelle grotte disseminate di forme e di sensazioni. Ci sono cattedrali e ponti. C’è l’organo a canne, c’è il castello delle streghe, c’è il Vate adunco che si palesa con ghigno ombroso. E poi lo spazio, non c’è possibilità di valutare lo spazio che ci avvolge: potrebbe essere un volume sconfinato o risibile e non ci accorgeremmo della differenza, quasi fosse la sala dei Giganti a decidere quale posto assegnarci e non viceversa. Sì, man mano si cammina e si sospira tra il basso e l’alto si ha la sensazione che siamo lì’ per una sorta di concessione sovrumana.
La madonnina che levita lassù adagiata all’immane parete vorrebbe indicarci la via, ma non si sa per quali scopi. Sentinella o pastora: che pena ci diamo ad indagare? Piuttosto ci affacciamo a considerare le sue dimensioni: dal nostro osservatorio pare una statuina di esanime grandezza, eppure non è così, ci ammoniscono, anch’essa ha proporzioni ciclopiche, quasi tre metri di altezza. Stentiamo a crederci, ma poco importa: il suo candore ci ristora e al suo cospetto non hai bisogno di altro.
Dopo qualche passo vi è però un assillo: lei, così lucente e generosa, pare in realtà per avventura incastonata nella cengia mediana, quasi fosse lì contro la propria volontà. Di certo tuttavia non ne ha noia e seguita a dispensare il suo sguardo a noi che così piccoli e vacui osiamo transitare.
Un transito che si fa accidentato, tra acqua e fanghiglia, mentre scendiamo il sentiero a gradini. Abbiamo oltrepassata la gigantesca frana ma qualche dolce dirupo si affranca dai ponticelli con corrimano, e non vorremo scivolar di sotto, per cui prestiamo rigore e attenzione, come fa chi procede a tentoni nel buio macchiato dalle stelle. Finché non lo vediamo, quel volto da megera, o meglio la sua ombra, che se ne sta dipinta su una parete azzurrina. Che strano, qualche forma di vita si palesa solo con la luce di una torcia, ma in questo caso è la luce stessa a dar vita. E se invece non fosse così, se la strega quindi esistesse a prescindere da quella torcia e dalla guida che la aziona? Quel che sia, della versiera non v’è onta ad aver timore, e persino Satanasso approverebbe, e noi sgattaioliamo celeri auspicando che al nostro rientro ella sia rincasata nelle stanze del suo castello.
Ad un tratto la sala dei Giganti ci congeda ma solo per aprirci un altro varco, che tra cunicoli e parapetti ci conduce in altre sale e in giardini dai denti aguzzi, là dove nuove forme vieppiù ardite si moltiplicano grate per il nostro passaggio. Sono creature aliene e rebbi, poi edifici che paiono ghiacciati e antenne, totem e baluardi di pietra; in effetti loro tutti sono immoti e dall’eternità parrebbero risiedere in quelle stanze ipogee, plasmate con pertinacia dal fiato dell’acqua. Eppure non è strano immaginare che nottetempo quelle formazioni si muovano e si dispongano con perizia a formare trame novelle o a simulare nuove mosse, come in una partita a scacchi con la superficie, di quelle partite senza vincitori. E quelle torri e bocche di calcare sogghignano appena ci voltiamo, perché sanno dell’inganno e se ne compiacciono e al congedo del pubblico, quando nessuno li può vedere, brindano, cantano e sollevano i calici ai propri dei; e di quest’ultimi nessuno sa nulla se non che se ne stanno in basso, verso il centro della terra, e che sbirciano con occhio franco le creature di pietra.
Poi il percorso si fa tortuoso e io mi arresto, in un punto preciso e immancabile, proprio in quel punto lì, quasi fosse stato stabilito dalle mani di quegli stessi dei. Dirimpetto a me proprio quelle mani, sono di pietra e non di altra sostanza. Nessun altro le vede o non se ne cura, tutti transitano all’unisono spinti dalla necessità di proseguire e la guida mi esorta a non disunirmi dal gruppo. Non v’è prescia nel rimirar il bello, vorrei dire, ma si sa che la frenesia è il vezzo infesto per eccellenza.
Poi di lì a poco in uno scrigno lacustre le vedo, le deliziose dita che in ogni canto emergono, come se a fior d’acqua vi fosse qualche essere fatato smanioso di mostrar le proprie fattezze.
Infine si decide di risalire. La scalinata del principio si ripresenta, non senza alcune ombre e pieghe difformi da prima. Alcuni gruppi ancora segnati dalla superficie sfilano ai nostri fianchi; l’aria fresca li fa sembrare degli spettri stanchi, hanno bocche aperte e occhi lucidi, ci guardano come se noi stessi facessimo parte del giardino di calcare.
Vorrei scivolare, non visto, verso qualche anfratto, e lì rannicchiarmi, attendere la chiusura delle luci e appartenere allo stillicidio, forse per sempre. In fondo, chi vuoi se ne accorga? Tra migliaia di persone che vagolano nelle grotte di Frasassi, a che pro crucciarsi per una qualche forma viva che rimanga depositata in basso, e che abbracci le sagome perenni e decida di rimanere nell’infera cittadella incastonato come un diamante devoto, e che accolga i nani delle miniere e i folletti ed elementali che custodiscono il passaggio verso le altre cavità e verso gli dei del centro della terra?
Nel cogitare qualcuno mi urta, rischio di franare sul fondo umido. I giganti paiono divertiti dalla goffa umanità, ma nemmeno ora si muovono, né si attardano in balzi, risate o altri moti d’ilarità: che l’immobilità sia l’unico rimedio all’imperfezione?
Vedo alcuni visitatori ormai inermi, allo stremo appetto a tanta bellezza. Non ordinati sfiliamo nel tunnel che ci riporterà in superficie: il tutto si svolge quasi per caso, come casuali siamo stati noi nelle mirabili sale.