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Avevo portato con me
solo una penna
e un quaderno sgualcito.
Speravo in un verso,
magari breve,
che sapesse parlare del mare
senza nominarlo.
Ma nulla usciva.
Solo il bianco.
Un bianco invadente
come le colonne spezzate
del promontorio,
come le voci dei turisti
che raccontano la bellezza
senza sentirla davvero.
Il mio pensiero si frantumava
tra le crepe del tempio
e l’invisibile peso delle aspettative.
Scrivere era diventato
un atto inutile,
un richiamo muto
che si perdeva nel sale.
Poi,
come a smentirmi,
arrivò il vento.
Non un alito gentile,
ma una furia viva,
una lama che fruga sotto la pelle.
Mi rovesciò addosso
l’odore degli oleandri secchi,
il ricordo di qualcosa che avevo perso,
la nostalgia di non so cosa.
Sentii la pagina staccarsi
e volare via,
disordinata,
felice.
In quel vuoto improvviso
capìi che anche il silenzio
è un insegnamento.
Che ci sono giorni da vivere
senza pretese,
solo per sentire
il peso della tristezza
e lasciarla passare.
Il vento di Tindari sapeva.
E scrisse lui per me,
sulle rocce, sulle nuvole,
sulla mia fronte stanca.
Non tutti i versi nascono da un’idea.
Alcuni arrivano
quando impari a smettere di cercarli.