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Troppo, davvero troppo
troppo tempo ho spiato là sull’orlo
laggiù dove si incapsula
nel mare il cielo, dove si confondono
quei due azzurri, di cui uno più perso;
ho sperato anche troppo di vederti
a me restituita, intatta — una reliquia
di naufragio che affiori inaspettata
cocci di vasi o bronzi di Riace —
così come — io credo — Cleopatra
a Tarso risplendesse
in poppa alla sua nave d’oro
come una stella in terra a Marco Antonio.
Ah, tintinnii di sistri
d’argento, porpora e profumi
musica di remeggi sulle fredde
acque del Cidno a dondolo:
quanto vorrei di nuovo io
farmi rapire.
Io non sono più quello se a Filippi
non mi sono fermato: ho proseguito
non so se per errore o per diletto,
ho mancato all’appuntamento col destino
e solo per un pieno di benzina;
non è contiguo più il tuo cielo al mio
mare amaranto e, perso
al fondo di un cristallo di ametista,
insensibile no, ma indifferente
posso perfino proseguire
senza rimorsi senza pentimenti
e quando e se ti penso,
se mi torni alla mente,
non sei più su quella tolda d’oro,
quell’altra o quella non sei più visione.
.
Ma che avranno pensato i legionari,
i veterani abbandonati ad Azio,
vedendo oltre lo stretto
e navi e vele in fiamme al vento,
la fuga ignominiosa
delle grandi triremi al largo e grida,
mute di marinai, se la sconfitta,
in fondo, è solo specie di inazione?
Dunque, infine, è così
che finiscono tutte le epopee?
Anche quelle degli altri? (non ne sono
davvero certo, se una volta in fila
per caso ti ho intravvista a Porta Santi,
ma le nostre vetture
si sono separate troppo presto
così non si è capito se mai fosse
la fine vera o, forse, un nuovo inizio).
Se manchi a quasi tutta la mia storia,
se sono più i minuti interminabili
in cui non ci sei stata di quegli altri,
a che mi servirebbe, adesso, attenderti?