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Aspetto il Natale come un treno lento
che sbuffa sogni tra i palazzi spenti,
mentre la città, stanca di lamento,
si specchia in vetrine e in occhi assenti.
Le strade hanno un respiro di nebbia,
un coro fioco di passi e sirene,
il cuore, fragile come una scheggia,
cerca silenzi più veri del bene.
Le luci pendono, stelle di latta,
come promesse cucite al cemento,
ogni lampione è una preghiera sfatta
che chiede tregua al proprio tormento.
Le case custodiscono attese,
tazze sbeccate, fotografie ingiallite,
mani che tremano come sorprese
prima di lettere mai spedite.
È stato un tempo di nodi e ferite,
di giorni storti come chiodi arrugginiti,
di voci perse, di porte smarrite,
di abbracci rinviati e mai finiti.
Ora il Natale non chiede rumore,
ma un passo lieve, un pane diviso,
un gesto piccolo come il pudore
di chi ritrova un antico sorriso.
La pace non esplode, scende piano,
neve invisibile sopra la mente,
scioglie la rabbia nel palmo della mano
e rende umano ciò che era assente.
Così l’aspetto, tra il ferro e il cielo,
come un seme nascosto nel gelo,
se il mondo tace, se il cuore è sincero,
anche il buio può farsi vangelo.