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Quattr'e più mesi di preparazione
forse nel fumo per mal previsione.
Nei nostri compagni l'umore era grigio:
sabato pioggia, ma sol nel meriggio!
Così, noi cugini con un capriccio
soli partimmo pel grande massiccio.
Monte più alto della dorsale:
il Corno Grande, Italia centrale.
Grande entusiasmo, intrepidi, audaci,
prima pensammo a mangiare fugàci.
Talché andammo con gran tracotanza
a buttare un panizzo giù per la panza.
Giungemmo ad Assergi alle ore previste
e ci coricammo in odor di conquiste.
Ma dopo tre ore di veglia agitata
suonò la sveglia, maleducata.
Sùbito in macchina, quasi in sottana,
lunghi tornanti di strada montana
fino al piazzale, nel buio candore
del campo più alto: Imperatore.
Torce alla mano, prima dell'alba,
salimmo il sentiero con aria spavalda.
Ma durò poco la lena spaurita,
dovendo far conti con l'ardua salita.
Per nostra fortuna riempiva i polmoni
l'aria più pura di enormi valloni,
mentre dirupi e bianchi nevai
facevan da balia ai nostri viavai.
Quasi nel mezzo del duro cammino
fummo attratti da un verso aquilino.
A tutto pensammo, nel nostro conscio,
tranne che fosse d'un raro camoscio.
Saltava lesto lungo il pendìo
mentre sfiniti dicemmo a Dio:
"infondi la fede per tener duro,
siamo stremati, tiecci al sicuro".
Forza l'un l'altro ci siamo fatti
passo su passo per lunghi tratti
finché visione, direi celestiale,
non si parò sul lungo crinale.
Simbolo sacro dagl'avi li eretta,
dinanzi a noi la croce di vetta.
E come culla, in braccio al vallone,
vasto il Ghiacciao del Calderone.
Eppur vi dico: la grande impresa
non fu di certo resister la resa
né tornar salvi a dolci pendici.
Ma batter noi stessi, temuti nemici.