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Qualche anno fa scattai questa foto a me stesso.
Fu lo scatto più intimo della mia vita.
Ricordo ancora il motivo “logistico” che si celava dietro:
pensavo alle forme,
alle linee,
a ciò che costituisce la nostra dimensione spaziale —
dentro e fuori.
Dentro di noi,
fuori di noi,
e ancora più fuori,
oltre il pianeta stesso.
L’uomo ha sempre voluto ontologizzare i fenomeni,
strutturarli,
riempirli di futilità sociali.
A mio parere,
la risposta a tutto questo è una sola:
perché tutto abbia un “senso” disperato.
Ma in quella foto,
nulla ha senso.
Eppure tutto appare… tremendamente contemporaneo.
Tremendamente ordinario.
In un certo senso.
E proprio per questo,
amo pensare che nulla lo abbia davvero.
?
L’ambizione.
I soldi.
I vestiti.
Le auto.
I concetti costruiti per ammutolirci.
I passi premeditati.
Tutto questo…
ci rende davvero ciò che pensiamo di essere?
O siamo solo forme e linee astratte,
che nel loro insieme
compongono l’insensatezza?
Un’insensatezza utile.
Quella che permette all’uomo che la coglie
di sopravvivere più a lungo…
e forse anche oltre
il grande passo.
?
Io sono tutto
e nulla.
Sono coperto
ma nudo,
nella mia implicita esistenza.
Sento la consistenza della vita
solo quando il corpo sforza,
quando l’emozione si fa fisica,
quando allevia la nostalgia
della presenza cognitiva
esistenziale.
?
Un tempo non molto lontano
facevo parte delle geometrie sensate,
delle linee disegnate in modo lineare.
Oggi sono una sfumatura.
Una scia di fumo
lasciata dal passante
che ha quasi esaurito
il suo ultimo tiro di sigaretta.
Oppure —
mi piace pensare
di essere quel pensiero non ancora ragionato
di me stesso,
qualche anno fa.
Quel me
che non riusciva a dare forme
e linee
a ciò che pensava.
Era bello.
Perché mi incuriosiva.
Mi incuriosiva il modo in cui
avrei potuto articolare
l’insensatezza della mia figura
esterna e interna.
Oggi
riesco in questo.
Ma mi piace pensare
di essere ancora
quello che non ero prima.
Perché era bello
produrre astrazione.
E sentirsi l’indefinito
nel finto definito.