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Sulle prime, Arturo non aveva capito che cosa l’uomo sulla panchina avesse di strano; se n'era accorto solo in un secondo momento ed era stato il naso a farglielo capire, prima ancora degli occhi.
La pipa.
Erano secoli che non ne vedeva.
Il fumatore stava seduto in un angolo, mezza natica fuori e una gamba in tensione, come pronto a scattare all'apparire di un vigile deciso a far rispettare il divieto di fumo nei parchi pubblici.
Gli occhi, tuttavia, erano chiusi e sulla faccia rugosa era dipinta un’espressione di beatitudine.
Tirava una boccata ogni tanto e le volute di fumo, tra il grigio e l’azzurro, erano quasi dello stesso colore dei baffi.
Arturo si accomodò all’estremità opposta della panchina. Al vibrare del legno l’uomo sussultò spalancando gli occhi come se fosse stato sorpreso in flagranza di chissà quale reato.
«Faccia pure» lo tranquillizzò Arturo.
Si era a metà di un giorno feriale e il parco era deserto; si potevano sentire le foglie cadere e, sbatacchiando qua e là tra i rami, aggiungersi al tappeto giallastro che l’autunno aveva steso sul vialetto.
«Avevo quasi finito» disse l’uomo. Accavallò una gamba e svuotò il fornello battendolo contro il tacco «Ne fumo una al giorno e non tutti i giorni» spiegò «è bene non tenere in bocca oggetti troppo caldi troppo a lungo: favoriscono lo sviluppo di tumori al cavo orale».
Ad Arturo venne in mente “L’uomo dal fiore in bocca”, ma si trattenne dal dirlo.
«Il fatto è» proseguì il fumatore «che voglio dare valore al tempo. Fumare la pipa non è faccenda da qualche boccata. La scelta della miscela di tabacco, la cura del fornello, del cannello, del bocchino, richiedono attenzione e pazienza: le boccate migliori sono le ultime, quando la pipa sta per spegnersi; il contrario di quello che succede con le sigarette… e con un sacco di altre cose. Esistono persino delle gare di “fumo lento”, lo sapeva? Quante competizioni, oggi come oggi, premiano chi va più piano?».
“Poche” pensò di dire Arturo, ma stette zitto: era una riposta troppo generica.
«Alcuni anni fa si pretendeva di attribuire ai fumatori di pipa una particolare connotazione sociologica o, peggio ancora, politica. Sciocchezze» andò avanti l’uomo «è il concentrarsi che dà valore alle cose. Se ne fai tante contemporaneamente, puoi star sicuro che nessuna vale molto. Se invece ti dedichi a un'occupazione sola, con dedizione, puoi essere certo che è tempo ben speso. Naturalmente, il difficile è capire a che cosa e solo a che cosa devi dedicarti».
«Una pipa è una pipa è una pipa, con buona pace di Magritte e Gertrude Stein» disse Arturo senza saper bene da dove gli uscisse.
Sì udì un trillo lontano, seguito da un vociare di bambini. Le lezioni, nella scuola dall’altra parte del parco, dovevano essere terminate.
«Già» disse l’uomo alzandosi. Mise la pipa in tasca, rivolse ad Arturo un cenno di saluto e si allontanò con passo tranquillo.
Non fu l’inizio di un’amicizia; di un’abitudine, piuttosto, e forse neanche di quella.
Arturo si recava al parco con una certa frequenza e incontrava il fumatore spesso, ma non ogni volta. Era seduto sempre sulla stessa panchina, sullo stesso angolo.
Ogni volta, Arturo si metteva all’estremità opposta. Era come un tacito patto in forza del quale Arturo faceva la guardia affinché l’uomo potesse godersi la sua fumatina in santa pace.
Con l’arrivo dell’inverno, Arturo pensò che il fumatore – era sui settanta, senz’altro – diradasse le proprie uscite, ma non accadde.
La panchina, ora che le foglie erano cadute, era al sole, e l’uomo sostava nella pozza di luce come rivolto al fuoco di un camino invisibile.
Non parlavano molto e, quando succedeva, per lo più di minuzie. Arturo imparò che l’aggeggio con cui l’uomo curava la pipa si chiamava, appunto, curapipe e che le sue tre parti erano dette “pressa”, “alesatore” e “spillone”. La piccola spazzola che serviva a pulire cannello e bocchino era detta scovolino.
«Mi piacerebbe vedere le gemme» disse un giorno il fumatore «è ancora presto, ma gli inverni si fanno sempre più brevi e più caldi. Se sta bene attento, e se osserva gli alberi giusti e nei posti giusti, può intravedere dei piccoli rigonfiamenti».
«Basta avere un po’ di pazienza» disse Arturo e ancora non aveva smesso di parlare che la frase gli sembrò fuori luogo.
"La prossima volta inventerò qualcosa di meglio" pensò.
Ma il fumatore non si fece vedere più.
Non quando spuntarono le gemme, nè quando si dischiusero, né quando le foglie s’infittirono.
Con i tepori primaverili il parco si popolò: gente in pausa pranzo, anziani e genitori con figli in età prescolare, perdigiorno.
La panchina, però, rimaneva sempre deserta. A volte la gente ci passava accanto, ma tirava via senza fermarsi, accellerando il passo. Qualcuno si sdraiava poco lontano dopo aver steso un telo sull’erba, ma nulla più.
Anche Arturo esitò un bel po’, come se sedervicisi, senza che ci fosse l’altro, non avesse senso.
Quando si decise era primavera inoltrata.
E percepì l’odore del fumo.
Non credette neppure per un momento che venisse da qualche altra parte: aleggiava intorno alla panchina come un invisibile animale da compagnia. Dopo qualche istante lo riconobbe: era la miscela di tabacco usata dal fumatore. La realizzava lui stesso, usando una piccola bilancia, e gli aveva spiegato che tabacchi diversi producono effetti differenti a seconda del materiale con cui è fatta la pipa: radica, schiuma, argilla… non ricordava i dettagli e comunque non importava. Chiuse gli occhi e inalò l’aroma.
Poteva darsi che il fumo avesse impregnato il legno, ma era certo che l’ipotesi non avrebbe retto a un semplice esame chimico.
Espirò e gli parve di avvertire, in bocca, quasi un retrogusto.
Lo trovava piacevole, ma probabilmente perché, poco a poco, ci si era abituato; per gli altri non era così e per quel motivo la panchina era deserta.
Fu tentato di mettersi al posto del fumatore, ma scartò subito l’idea: era l’angolo dell’uomo con la pipa, quello.
Nelle settimane seguenti Arturo continuò a frequentare il parco, ma non trovò mai nessuno seduto sulla panchina, neppure quando arrivò l’estate, le scuole finirono e i posti a sedere iniziarono a scarseggiare.
Era già metà giugno quando trovò la ragazza.
Indossava un vestito leggero a fiori, sandali e un cappello a tesa larga che teneva appoggiato accanto a sé.
Sedeva al posto del fumatore e guardava in altro, proprio come lui aveva fatto, mesi prima, cercando le gemme.
Arturo occupò il suo solito angolo, senza salutare, senza chiedere il permesso e senza troppi complimenti.
Era una bella ragazza, ma non poteva fare a meno di considerarla una specie d’intrusa.
La guardò di sottecchi, infastidito perchè non aveva un giornale, un libro o qualcos’altro con cui simulare indifferenza. In mancanza di meglio, cominciò ad armeggiare col telefono.
La ragazza lo ignorò. Il suo petto si alzava e si abbassava lentamente, come se facesse esercizi di respirazione. Di colpo disse: «Lo sente anche lei, vero?» Si girò verso Arturo e precisò «L’odore di fumo».
Arturo cercò cosa dire, non lo trovò e annuì pian piano.
Nei giorni successivi i due si incontrarono più volte sulla panchina, prima sporadicamente poi più spesso.
Le chiome degli alberi, ora, erano fitte, così che, nelle ore più calde, l’ombra la copriva, tenendola al fresco.
Quando si scambiarono il primo bacio fu come al riparo di uno spesso velo verdastro.
Smisero di andare al parco prima che finisse l'estate e ripresero quando sul viale era steso un nuovo tappeto di foglie.
L’ultima volta che si sedettero insieme le gemme erano riapparse e loro sembravano impacciati, lei perché aveva della scarpe eleganti, ma scomode, lui perché si sentiva a disagio in quel vestito nuovo che era costato un occhio.
Poi nessuno li vide più.
L’odore di fumo aleggiò ancora per un po’ intorno alla panchina, facendosi via via sempre più debole fino a svanire del tutto.
NDA: il racconto ha lo stesso titolo di un altro racconto di Fritz Leiber, ma è solo una coincidenza.