Josephine, l’altra sorella

scritto da Silvia Marcarini
Scritto 3 anni fa • Pubblicato 3 anni fa • Revisionato 3 anni fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di Silvia Marcarini
Autore del testo Silvia Marcarini
Immagine di Silvia Marcarini
L'arrivo di un'inaspettata sorella, frutto di uno stupro.
- Nota dell'autore Silvia Marcarini

Testo: Josephine, l’altra sorella
di Silvia Marcarini

Josephine, l’altra sorella
di Silvia Marcarini

Ogni famiglia ha i suoi segreti; a volte brulicano indisturbati sotto una coltre di terra e forse, non vedranno mai, il chiarore del giorno.
Chi sono i loro Custodi? Gli Osservatori del Silenzio, seduti proprio accanto a te in questo momento.
Si riconosce un Osservatore del Silenzio dall’assenza di luce che precipita come un’onda infangata nello sguardo e da una fede incrollabile nella menzogna che detiene sempre una personale verità. L’anima, ormai, senza più dimora, è destinata a vagare come un’ombra velata nei vicoli angusti di una città infernale.
A volte, per caso, capita d’inciampare in questi fastidiosi “sassolini”, sparsi nei sentieri del tempo, quando qualcosa d’inaspettato bussa alla porta e allora la coscienza trema, le immagini perdono i nitidi colori e sulle labbra si scioglie il sapore dolce amaro dell’esistenza.
Seduta in un piccolo bar, situato in Rue Lamarck, Josephine sorseggiava nervosamente una tazza di caffè; cercava d’interrompere il fragore dell’attesa con un’amica sigaretta. Le lunghe dita affusolate, pallide e magre contrastavano lo smalto laccato delle unghie. Tutto era spento in lei. Aveva all’incirca una trentina d’anni ma l’opacità del suo aspetto le conferiva qualche anno in più.
Osservava con introspezione la pioggia che bussava sulla vetrata del bar, come se un battito cieco d’ali si fosse perso nell’oscurità.
Josephine pensava continuamente alla voce di donna udita per la prima volta una settimana fa al telefono: poche frasi che denotavano lo spirito pragmatico di quella sconosciuta. L’incontro fu concordato. Questa persona aveva qualcosa d’importante da rivelare. Perché la stava cercando? Che cosa voleva da lei?
Era giunta l’ora. Un ventata d’aria accompagnò l’apertura della porta d’ingresso del bar. L’ospite atteso era arrivato: bionda, di bassa statura con un cappotto color cammello, lanciò un’occhiata furtiva verso il tavolo di Josephine e con passo fugace lo raggiunse per presentarsi: “Sono Paula Suarez. Sei la figlia di Robert Durand?”.
“Si. Piacere di conoscerti Paula. Come è stato il viaggio da Buenos Aires?” domandò Josephine.
“Bene. Sono arrivata ieri sera. Ho preso una stanza all’Hotel La Lumiere. E’ la prima volta che vengo a Parigi; avrei voluto visitarla in altre circostanze” rimarcò con un mezzo sorriso.
“Ti offro qualcosa da bere Paula? Un caffè?”
“Si. Grazie” rispose cortesemente.
“Paula perché hai intrapreso questo lungo viaggio solo per conoscermi?” chiese timidamente Josephine.
“Viviamo brevi esistenze riparati dal nostro micromondo senza vedere per anni la verità. Voglio scoperchiare la cupola di bugie che ci ha tenute legate per tutto questo tempo. Non è un compito facile; ma darò voce a fatti molto lontani. Cinque mesi fa è morto mio padre, per me è stata una grave perdita, pensavo di non riuscire a superare il dolore che mi stava consumando l’anima come un cancro latente. Intanto, mia madre lottava con un “male” nascosto, non fisico, un’angoscia subdola che cresceva sempre più forte nel cuore fino a farle tramutare i lineamenti del viso. Una notte, venne nella mia camera con il viso bagnato di lacrime e di sudore e la voce tremante come una foglia percossa dal vento, per rompere la promessa di silenzio di trentacinque anni prima. Pure lei era stata una giovane donna piena di speranze e di sogni che a volte servono per superare la miseria della propria esistenza. Lavorava in un locale che veniva frequentato da stranieri, proprio per la tipica cucina del mio paese. Un giorno, capita un cliente molto particolare, un uomo di bell’aspetto, con occhi blu ghiaccio e naso filiforme, il quale ordina a mia madre un Asado argentino e del buon vino. L’uomo sembra attratto da lei; le sfiora la mano con una calcolata disinvoltura e la chiama per nome. La sua presenza diventa sempre più assidua e così in una giornata di primavera Monsieur Durand spezza i formalismi con una rosa color corallo” riferì Paula in modo puntuale.
“Presumo che questo straniero a cui ti riferisci fosse mio padre?” disse con perplessità Josephine.
“Si proprio così Josephine! La famosa rosa apparteneva alla serra della tenuta Martinez e così tuo padre propose a mia madre di vedere quel bellissimo luogo; sarebbe stata una passeggiata fra amici e niente di più. E così fu. Un’esplosione di profumi muschiati inondava il viale del parco della tenuta e gli animali acquatici riempivano le vasche delle fontane. Visitarono anche la prestigiosa serra abitata da una moltitudine di rose variegate che correvano sospese come funamboli verso l’orizzonte infinito; c’era un silenzio innaturale, il respiro di Monsieur Durand divenne affannoso e discontinuo fino a quando la sua mano strinse improvvisamente il florido petto di mia madre. Lei si agitò e pretese delle scuse per lo spregevole comportamento. Lui con impeto di rabbia, abbandonò presto le vesti da uomo per indossare quelle ignobili della bestia e la scagliò con forza contro un tavolo di vasi, prendendole senza permesso il suo corpo”, intercalò Paula con un suono tra il pianto e il singhiozzo.
Josephine fredda cadaverica e senza parole, non era più in grado di sostenere sé stessa. Così, Paula prosegui il suo racconto, “Mia madre fu abbandonata in quella serra e spaventata raccolse le poche forze per far ritorno a casa. Mio padre non seppe mai nulla di quell’evento attraverso la sua bocca. Forse sospettava che nascondesse qualcosa e la certezza si radicò in lui quando nacqui io: i miei occhi non potevano tradire le mie origini e i miei capelli erano di un color paglierino che ricordavano i girasoli dei campi francesi. Papà era un uomo di famiglia che amava molto i suoi figli e quindi anche la moglie, non voleva perdere tutto ciò in cui credeva e così con la sua grande bontà d’animo amò anche me. Ma io come tutti i bambini percepivo la verità tenuta nascosta dai grandi e quindi ponevo delle domande: “Mamma, perché Isabel e Sebastian non hanno gli occhi del colore del mare?” e mia madre con la dolcezza d’animo rispondeva “Vivi, come se fossi un semplice granello di sabbia, amando ogni singolo fratello tanto simile e alquanto diverso da te, allora scoprirai la gioia divina su questa terra”.
Josephine, trovò il coraggio di spezzare l’abisso che si era creato con l’inaspettata sorella e con un filo di voce chiese ”Paula cosa vuoi?”
“Non l’hai capito. La morte si è presa colui che ho sempre considerato un padre ma io invece ti consegno, cara Josephine, sul vassoio implacabile della vita, un misero farabutto che fino ad oggi hai chiamato papà” rimarcò Paula con un percettibile piacere intriso di vendetta.
Un sussulto incontrollato pervase Josephine che vide per la prima volta negli occhi di Paula quelli blu del padre e s’alzò di scatto dalla sedia per abbandonare definitivamente alle sue sorti una risoluta “Salomè”; il dolore era troppo forte da dover condividerlo. Desiderava solo unirsi alla pioggia, per scivolare via, nella Parigi sotterranea, quella dimenticata da tutti, per non fare più ritorno; ma corse in fretta, giù dalla scalinata che portava alla fermata della Metropolitain ed entrò nell’oscurità fino a riemergere nella luce artificiale di un anonimo vagone. Seduta, accanto a tanti sconosciuti, osservava i piccoli gesti di quotidianità dei passeggeri: chi leggeva un libro, chi parlava con il proprio compagno o sentiva la musica.
Sopraggiunse il momento di scendere. Era arrivata a destinazione, così ritornò nel fragore cittadino per incamminarsi verso un imponente edificio color grigio tortora che conosceva bene.
Entrò nella reception e salutò amichevolmente il personale al bancone. Salì su un ascensore tanto piccolo che ricordava un camerino di prova d’abiti di un teatro di terz’ordine e premette il tasto numero tre.
Quando la porta a scorrimento si aprì, Josephine, avvolta nei pensieri, attraversò il lungo corridoio che odorava di disinfettante ed entrò nella stanza due B.
Lui era lì, immobile sulla solita poltrona giallo ocra accostata alla finestra, con lo sguardo rivolto a osservare la smania delle persone che popolavano le strade autunnali e il lampeggiante colorato di un semaforo che sembrava un albero di Natale.
Josephine pronunciò con pacatezza queste uniche parole: “Ciao Papà” ma ricevette come risposta un incomprensibile mugolio. Davanti a sé, vedeva il riflesso di un uomo che gattonava a fatica in una vita di ombre. Lui ora apparteneva alla sua malattia che si stava nutrendo di ricordi, lasciando spazio a frammentari lampi di realtà in un’esistenza assecondata dal tempo.
Il Destino aveva già giocato la sua mossa.

Josephine, l’altra sorella testo di Silvia Marcarini
12

Suggeriti da Silvia Marcarini


Alcuni articoli dal suo scaffale
Vai allo scaffale di Silvia Marcarini